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Ecco la vera posta in gioco istituzionale sul Mes. Il commento di Polillo

Il Mes non è solo il tentativo più o meno riuscito di creare una rete di sicurezza ma di rendere più cogenti regole che hanno fatto il loro tempo, considerata la situazione poco felice dei principali Paesi europei. L’Italia in testa. L'analisi di Gianfranco Polillo

Fine settimana intenso, in vista delle più immediate scadenze. Lunedì 2 dicembre si riunirà l’Aula di Palazzo Madama per ascoltare il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Che ha già promesso fuoco e fiamme. Svelerà il mistero delle riunioni intercorse con Matteo Salvini, durante le quali furono decise le mosse, per giungere a definire la posizione italiana sul Mes. Problema importante ai fini della tenuta della maggioranza, visto il voto della Camera dello scorso 19 giugno, che aveva impegnato (inutilmente) il governo a “resistere”. Ma già questo dispositivo, contenuto nella risoluzione di maggioranza a firma dei due capi gruppo giallo-verde (Molinari per la Lega e D’Uva per i 5 stelle), è oggetto di opposte interpretazioni.

L’interrogativo di fondo, in vista delle prossime riunioni europee (Eurogruppo e Consiglio dei Capi di stato) non è tuttavia questo. Più che piangere o ridere sul latte versato, l’Italia dovrà decidere se accettare il compromesso maturato o comportarsi diversamente. Richiedendo, semmai, di rinviare la decisione ad un futuro (la prossima primavera?) migliore. Come suggerisce Luigi Di Maio, che di questa maggioranza detiene le chiavi della cassaforte. O come si è speso Alessandro Di Battista, che, dopo un lungo periodo di ritiro ha fatto nuovamente sentire la sua voce.

Che, nel lungo periodo della gestazione del testo base, modifiche e complicate mediazioni vi siano state è fuori discussione. Basti ricordare da dove si era partiti. Allora sul proscenio della politica europea era ancora presente Nicolas Sarkozy che, con Angela Merkel, nella famosa passeggiata di Deauville (18 ottobre del 2010), aveva convenuto sulla necessità di un coinvolgimento degli erogatori del prestito – il Mes stesso – nella definizione delle condizioni del programma di risanamento economico e finanziario, che avrebbe dovuto precedere ogni effettiva erogazione.

Per capire la portata non solo economica, ma politica del nuovo Trattato, si consideri ch’esso è figlio del bail in. Di quell’impostazione che, in Italia, ha portato al fallimento di molti piccoli istituti di credito – dall’Etruria a Banca Marche – salvo poi scoprire, sulla scorta della nota sentenza della Corte di giustizia europea, che in quei casi si poteva operare diversamente. Evitando il massacro di tanti poveri risparmiatori e il suo successivo limitato accollo per le casse dello Stato: sotto forma di un parziale risarcimento. A dimostrazione di quanto possa essere ampia la distanza tra il “dire” ed il “fare”. Tra astratte regole giuridiche e meccanismi di mercato.

Che questo sia un pericolo, è dimostrato dalla puntigliosità con cui, nell’allegato III, si indicano i parametri di riferimento dell’eventuale programma di risanamento. “Disavanzo pubblico non superiore al 3% del Pil; saldo strutturale delle amministrazioni pubbliche pari o superiore al parametro di riferimento minimo specifico al paese; parametro di riferimento del debito pari a un rapporto debito pubblico/Pil inferiore al 60% o a una riduzione del differenziale rispetto al 60% nei due anni precedenti a un tasso medio di un ventesimo l’anno; assenza di squilibri eccessivi; riscontri storici di accesso ai mercati internazionali dei capitali, ove pertinente, a condizioni ragionevoli; posizione sull’estero sostenibile; e assenza nel settore finanziario di gravi vulnerabilità che mettano a rischio la stabilità finanziaria del membro del Mes”.

Alcuni di questi elementi sono di natura finanziaria. Ma la loro maggior parte riflette le regole del “Patto di stabilità“ e la sorveglianza sugli squilibri macroeconomici dell’Alert mechanism. Il che comporterebbe inevitabilmente la definitiva santificazione del “Patto di stabilità”, rendendo quasi impossibile ogni proposta di eventuale modifica. Come mostra del resto la prima intervista di Ursula Von Der Leyen. Che ha escluso, in modo categorico, una deroga dallo stesso Patto per gli investimenti verdi. Ritenuti “green washing” (ambientalismo di facciata).

Questo quindi il contesto che fa da corona alla discussione sul Mes, che non è solo il tentativo più o meno riuscito di creare una rete di sicurezza. Cosa pure necessaria ed indispensabile. Ma di rendere più cogenti regole che, in qualche modo, hanno fatto il loro tempo, considerata la situazione, in verità poco felice, in cui versano i principali Paesi europei. L’Italia in testa.

Lo stesso Parlamento europeo, nella passata legislatura, si era reso conto, del resto, di questa contraddizione, negando il suo voto all’inserimento di quelle regole nell’ordinamento giuridico europeo. Roberto Gualtieri, come presidente della Commissione problemi economici e monetari, aveva svolto un ruolo determinante. Salvo, il tardivo ripensamento, dell’ultimo momento. Considerate le sue più recenti posizioni a favore di un voto favorevole al Trattato così com’è. Una conversione che andrebbe spiegata.

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