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Energia Pul

Usa e Ue sono in ritardo sulle tecnologie pulite rispetto alla Cina. Report Financial Times

La Cina domina la produzione delle tecnologie pulite per la transizione ecologica: dalle batterie ai pannelli solari alle pale eoliche, passando per i componenti di base e i metalli. Gli Stati Uniti e l'Unione europea vogliono recuperare terreno: ecco come.

Non si può dire transizione ecologica senza dire Cina. Come ben evidenziato da questo grafico del Financial Times, Pechino “domina” davvero la produzione globale dei componenti per le “tecnologie pulite” – si chiamano così tutti quei dispositivi utili alla sostituzione delle fonti fossili: batterie, turbine eoliche, pannelli solari… -, con quote di mercato enormi.

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LA DOMINANZA DELLA CINA SULLE TECNOLOGIE PULITE

La Cina, ad esempio, vale da sola quasi l’80 per cento della produzione mondiale di batterie per i veicoli elettrici e lo stoccaggio energetico, circa il 70 per cento della manifattura di catodi (gli elettrodi positivi) e intorno al 90 per cento di quella di anodi (gli elettrodi negativi). Rappresenta inoltre più dell’80 per cento della produzione di pale per le turbine eoliche in mare (offshore) e il 60 per cento di quelle per le turbine a terra (onshore). Sui wafer – dei quadrati sottili di silicio, necessari alla realizzazione dei pannelli solari – controlla quasi l’interezza della manifattura globale, e l’80 per cento circa di quella di moduli, i componenti che compongono i pannelli.

LA RISPOSTA DEGLI STATI UNITI

La dominanza cinese sulle tecnologie critiche per l’energia pulita viene avvertita come una minaccia soprattutto dagli Stati Uniti, che si sono dati degli obiettivi ambiziosi sulla transizione ecologica ma temono di sviluppare una profonda dipendenza industriale dalla loro rivale politica, con tutto quello che ne potrebbe conseguire per la sicurezza economica nazionale e per il mantenimento del “primato” sul mondo.

Lo strumento che dovrebbe impedire uno scenario del genere è l’Inflation Reduction Act, la legge da 369 miliardi di dollari che prevede incentivi generosi per le tecnologie a basse o zero emissioni. Come scrive il Financial Times, negli Stati Uniti “è in corso una nuova rivoluzione in settori che vanno dall’energia solare a quella nucleare, dalla cattura dell’anidride carbonica all’idrogeno verde – e i suoi obiettivi sono profondi: ringiovanire la rust belt del paese [la “cintura di ferro”, il vecchio centro dell’industria pesante americana poi entrato in crisi, ndr], decarbonizzare la più grande economia del mondo e strappare il controllo delle catene di approvvigionamento energetico del XXI secolo alla Cina, la superpotenza mondiale delle tecnologie pulite”.

“Non c’è alcun motivo per cui le pale delle turbine eoliche non possano venire prodotte a Pittsburgh piuttosto che a Pechino”, aveva dichiarato il presidente statunitense Joe Biden lo scorso aprile.

– Leggi anche: Ecco le società cinesi che dominano il mercato delle batterie

L’UNIONE EUROPEA CORRE AI RIPARI

Gli sgravi fiscali contenuti nell’Inflation Reduction Act hanno reso gli Stati Uniti “irresistibili per gli investitori”, spiega il quotidiano, e il paese sta sottraendo attrattività ad altre regioni del mondo. Spaventata dalla legge americana, l’Unione europea ha elaborato un proprio piano di sostegno all’industria verde – il Green Deal Industrial Plan – che però non prevede nuove risorse, ma riutilizza quelle già stanziate per altri scopi.

Dall’entrata in vigore dell’Inflation Reduction Act, ad agosto dell’anno scorso, gli Stati Uniti hanno ricevuto investimenti in nuovi progetti sulle energie pulite dal valore di 90 miliardi di dollari, stando ai dati di Climate Power.

“Gli Stati Uniti”, ha detto al Financial Times David Scaysbrook, partner del gruppo di private equity Quinbrook Infrastructure Partners, “sono adesso il mercato più ricco di opportunità, dalla crescita più aggressiva e più prolifico per gli investimenti nelle energie rinnovabili. E lo saranno per un bel po’ di tempo”. Il piano europeo non è invece stato recepito altrettanto bene dalle aziende, che si lamentano non tanto per l’entità dei sussidi quanto per le difficoltà burocratiche e per i lunghi tempi di accesso ai fondi, che scoraggiano gli investimenti.

L’Inflation Reduction Act potrebbe “frammentare l’Occidente”, ha detto il presidente francese Emmanuel Macron. Secondo la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, potrebbe invece essere causa di “concorrenza sleale” e di chiusure dei mercati.

SPESA PUBBLICA E INVESTIMENTI PRIVATI

L’America vuole diventare una potenza industriale della transizione ecologica attraverso un massiccio intervento statale. Secondo la banca Credit Suisse, la spesa pubblicata connessa all’Inflation Reduction Act potrebbe raggiungere gli 800 miliardi di dollari; se si conteggia anche la spesa privata generata dai prestiti e dalle sovvenzioni, si potrebbe arrivare a 1700 miliardi.

Wood Mackenzie stima che, grazie ai crediti d’imposta – che possono coprire fino alla metà dei costi di una fabbrica di batterie -, gli investimenti nello stoccaggio energetico negli Stati Uniti più che triplicheranno entro la fine del decennio, e al 2030 le aggiunte annuali di nuova capacità di accumulo saranno passate da 5 a 25 gigawatt.

L’Inflation Reduction Act potrebbe fare la differenza non tanto sulle tecnologie pulite già affermate – come quelle per l’eolico e per il solare, sulle quali la Cina è in netto vantaggio -, ma soprattutto sulle clean tech immature, che devono ancora raggiungere una grossa scala di produzione: ad esempio l’idrogeno verde, la cattura del carbonio e la bioenergia.

LE MATERIE PRIME PER LE TECNOLOGIE PULITE

Non sarà semplice, né per gli Stati Uniti né per l’Unione europea, recuperare lo svantaggio manifatturiero rispetto alla Cina, che continua peraltro a destinare grosse somme alla transizione energetica: secondo una stima di BloombergNEF, l’anno scorso ha investito 546 miliardi di dollari nel comparto.

Sia all’America che all’Europa, poi, manca sufficiente capacità di estrazione e lavorazione delle materie prime, come il litio e il cobalto per le batterie, o le terre rare per i moduli solari. La Cina, al contrario, vale il 58 per cento della capacità di raffinazione globale del litio (gli Stati Uniti solo 1 per cento), il 71 per cento di quella di grafite (gli Stati Uniti il 5 per cento) e il 65 per cento di quella di cobalto (l’intera Europa il 18 per cento). Di conseguenza, Wood Mackenzie pensa che al 2030 gli Stati Uniti rappresenteranno il 13 per cento della manifattura mondiale di batterie al litio; i due terzi della produzione rimarranno concentrati nell’Asia-Pacifico.

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