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La Francia punta i piedi anti Germania sulla riforma del Patto Ue (e l’Italia sta con la Francia)

Ecco le ultime novità, e le ultime tensioni, fra Stati europei sulla riforma del Patto Ue di stabilità. L'approfondimento di Giuseppe Liturri

 

Avevamo fondati sospetti che la due giorni a Bruxelles tra Eurogruppo e Consiglio Ecofin avrebbe mostrato le profonde divisioni (tanto per cambiare…) che ci sono in Europa sul fronte della riforma del Patto di Stabilità e Crescita.

Il prologo dell’intervista di mercoledì del ministro francese delle finanze Bruno Le Maire al Financial Times era stato già ampiamente sufficiente a svelare la spaccatura sul fronte franco-tedesco. Ma venerdì, nella sede ufficiale del Consiglio dei ministri economico-finanziari, i toni sono stati particolarmente aspri. Anche perché il ministro tedesco Christian Lindner e quello francese Le Maire hanno parlato l’uno dopo l’altro ed è sembrato di ascoltare due extraterrestri in rapida successione, ciascuno proveniente da una galassia diversa. Il francese aveva preparato il terreno dichiarando al FT che avrebbe ridotto la spesa pubblica di Parigi soprattutto nell’area delle spese per mitigare l’impatto della crisi energetica. Ma aveva anche ribadito che “l’austerità non è un’opzione”, evidentemente sentendosi – con il deficit/PIL 2023 intorno al 5% – già nel mirino di Berlino.

E Lindner non l’ha mandata a dire. La sua battaglia è quella sul taglio automatico del deficit/PIL nella misura almeno di 1 punto percentuale annuo, anziché il mezzo punto proposto dalla Commissione. È vero che il percorso di rientro del debito sarà sempre oggetto di un negoziato personalizzato tra Commissione e ciascun Stato membro, ma ci deve essere una soglia minima che deve operare automaticamente, altrimenti (è la preoccupazione dei tedeschi) sarà il trionfo della discrezionalità e delle eccezioni.

Per essere sicuro che francesi (ed italiani) capissero per bene il messaggio, Lindner ha fatto l’esempio di un Paese “con un debito/PIL del 140% che, anche con la riduzione del 1% proposta dai tedeschi, servirebbero 80 anni prima di vederlo scendere sotto il 60%. Io avrei 124 anni…”. Insomma, il sogno della sua vecchiaia è vedere il debito/PIL al 60%, nell’illusione che l’azione per ridurre il numeratore non faccia terra bruciata del denominatore, come purtroppo abbiamo imparato a nostre spese a partire dal 2011. Ma tant’è.

Dopo pochi minuti, il francese non si è fatto pregare ed ha bollato come un errore grave gli automatismi su cui insistono i tedeschi. Grave sotto il punto di vista economico, perché quelle regole in passato sono state proprio la causa di anni di recessione, essendo pro cicliche. Ma grave anche sotto il profilo strettamente politico, perché metterebbero in discussione la “scelte sovrane di politica economica”. Sì, avete letto bene e se qualcuno avesse anche voglia di ascoltare potrebbe farlo qui.

Le Maire si è permesso di dire quanto ancora in molti – soprattutto in Italia – stentano a comprendere o ricordare: nell’attuale assetto istituzionale europeo “ibrido”, le Nazioni possono e devono fare scelte di bilancio specificamente mirate alle esigenze nazionali e quindi la politica economica – almeno quella di bilancio, ché quella monetaria è a Francoforte da più di 20 anni – deve avere un suo autonomo spazio d’azione. Non è solo un problema di automatismi, perché nella direzione sbagliata si può andare anche “in manuale”. Il ministro francese ha sottolineato che la politica di bilancio deve essere uno strumento non un obiettivo e, in pochi minuti, ha pronunciato la parola “crescita” più di dieci volte. Ha evidenziato che c’è necessità di fare ingenti investimenti per la decarbonizzazione e gestire la sfida dell’intelligenza artificiale e questo è il momento di usare i bilanci pubblici per investire, tema su cui la UE è da sempre drammaticamente ultima. Sarà la crescita generata dagli investimenti a stabilizzare il rapporto debito/PIL.

Tuttavia, pur con queste distanze siderali, il francese ha chiuso il suo intervento sostenendo che un accordo è ancora possibile.

Poco dopo è stata la volta del nostro ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti che ha puntato su un tema simile. Si tratta di ottenere lo scomputo dal rapporto debito/PIL degli investimenti in transizione ecologica e digitale. Insomma, almeno i 122 miliardi di prestiti che (forse) dovremmo ottenere a rate fino al 2026 in base al PNRR, ad un costo che ancora qualcuno si ostina a considerare conveniente, a dispetto dell’evidenza. Ma non solo, perché nei prossimi anni ci saranno altri investimenti pubblici da fare – perché il PNRR non può certo coprire tutte le nostre esigenze – che non possono sottostare alla tagliola delle regole europee, attuali o riformate.

Lo diciamo da tempo e, in chiusura, giova ripeterlo. Le regole che oggi ci si ostina a voler riformare (temiamo in peggio) sono figlie di un’altra era geologica ed hanno dimostrato sul campo la loro inefficacia e pro ciclicità, facendo dall’eurozona il fanalino di coda tra le economie avanzate. Va semplicemente smontata quella farraginosa e minuziosa accozzaglia di regolamenti messa a punto tra 2012 e 2013 sull’onda emotiva della crisi dei debiti pubblici (sottoprodotto della crisi dei debiti privati che la precedette) e mettere ciascuno Stato membro e sovrano nelle condizioni di fare le proprie scelte in modo responsabile. Tanto il vincolo c’è già ed è quello di potersi indebitare soltanto in una moneta che non si controlla.

E tanto, purtroppo, basta. Per ora, intoniamo “Allons enfant de la patrie, Le jour de gloire est arrivé…”.

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