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La riforma del Patto di stabilità? Peggio del Patto. Ecco perché

Qual è il vero peggioramento rispetto alle attuali regole ? L’introduzione sotto mentite spoglie di un immenso potere negoziale e discrezionale a favore della Commissione, con un continuo andirivieni tra Roma e Bruxelles sul modello Pnrr... L'analisi di Giuseppe Liturri sulla proposta di un nuovo Patto europeo di stabilità

C’è solo una cosa peggiore dell’attuale Patto di Stabilità: la sua riforma.

Ci appare questa la formula più efficace per riassumere la proposta legislativa avanzata mercoledì dalla Commissione e sui cui dovranno ora lavorare sia il Consiglio che il Parlamento.

Diciamo subito che non è certo che – a prescindere dai contenuti che usciranno dal “trilogo” tra le istituzioni UE – questa proposta legislativa vada in porto. Mancano solo 12 mesi alla fine della legislatura e c’è davvero ancora tanta carne al fuoco. Se a questo ci aggiungiamo che le divisioni tra gli Stati membri sono evidenti e che la materia è delicatissima (si interviene sostanzialmente riscrivendo due regolamenti del 1997 ed una direttiva del 2011), è comprensibile l’appello della Commissione a mettersi al lavoro subito e procedere in fretta. Sanno che potrebbero non farcela.

Prima di incamminarci nel merito della proposta, è doverosa una premessa. La Commissione tenta ancora una volta di darsi delle regole per disciplinare la politica di bilancio degli Stati membri, dopo che l’esperienza del passato ci ha insegnato – per stessa ammissione di Paolo Gentiloni, tra gli altri – che quelle regole o non servono o producono danni. Stupisce quindi questo accanimento regolatorio, quando ci sarebbe da domandarsi (in modo retorico) se le regole servono davvero a qualcosa.

E né vale l’argomento che senza regole ci sarebbe il caos o sarebbe peggio. No, la disciplina di bilancio degli Stati membri esisterebbe comunque per il semplice fatto che, soprattutto in un’unione monetaria in cui non si controlla la moneta in cui ci si indebita, non si può fare tutto il debito pubblico che si vuole. Regole o non regole, esiste sempre la valutazione degli investitori e la congruità delle scelte rispetto alle altre variabili macroeconomiche.

Gli investitori sono per caso fuggiti dai Btp quando nel 2021 e 2022 abbiamo fatto rispettivamente 9% e 8% di deficit/PIL (con la Bce che non ha più acquistato nulla da marzo 2022)? No, hanno ritenuto quel livello sostenibile, dato il contesto delle altre variabili macro, a prescindere dalle regole (non a caso sospese per tre anni). Se perfino un Paese che controlla la propria moneta, come il Regno Unito, ha visto la precipitosa retromarcia ed indecorosa uscita di scena della Premier Liz Truss, colpevole di aver varato una manovra di bilancio non sostenibile, che bisogno c’è di accanirsi con regole astruse in Eurozona, dove l’intervento della Banca Centrale è vietato dai Trattati?

Se il mercato è il mantra della UE, perché non affidarsi al mercato come banco di prova e di valutazione delle politiche di bilancio degli Stati? E quando il mercato fallisce o sbaglia valutazione, c’è sempre il paracadute della Bce che, dribblando i Trattati, ha la possibilità di attivare il TPI, concepito appositamente per porre rimedio alle eventuali aberrazioni dei mercati. Almeno nelle intenzioni, perché nessuno lo ha mai visto all’opera.

Ora veniamo ai dettagli. La Commissione ha puntato su semplificazione, titolarità da parte degli Stati membri e concreta applicabilità delle sanzioni. Partendo da quest’ultimo aspetto, va evidenziato che dal 1997 nessuno Paese ha mai pagato un centesimo per aver violato le regole e quindi ben si capisce l’enfasi su questo tema. Le sanzioni saranno ridotte per renderle applicabili e, soprattutto, basterà deviare dal percorso concordato con la Commissione, per finire automaticamente in procedura per deficit eccessivo. Non sembrano esserci spazi negoziali.

Questa rigidità viene presentata come la contropartita per una (apparente) maggiore flessibilità nel percorso di riduzione del debito. Che ha due caratteristiche: la prima è l’adozione del cosiddetto modello Recovery Plan; cioè lo Stato membro propone un percorso di riduzione di debito e deficit, la Commissione lo valuta e lo approva o lo corregge. E, in caso di disaccordo, prevale sempre la Commissione. Insomma, un negoziato abbastanza strano. Insomma, se le cose andassero male, non si potrà nemmeno dare la colpa alla Commissione, in quanto saremmo stati noi i “titolari” di quel piano. La seconda è la semplificazione perché si abbandona tutto il vecchio strumentario fatto di definizioni difficilmente misurabili come output gap e deficit strutturale, per affidarsi ad un unico parametro la spesa pubblica al netto delle entrate discrezionali (ciò significa che si potrà aumentare la spesa solo aumentando le tasse), la cui manovra servirà per condurre alla riduzione del rapporto debito/PIL verso il 60% e tenere il deficit/PIL sotto il 3%.

Modesto appare il sollievo della disponibilità di un arco temporale di 4 o 7 anni disponibile per il conseguimento degli obiettivi. Forse alla Commissione hanno dimenticato che negli ultimi 36 mesi, ci è cambiato il mondo sotto i piedi per ben due volte, ma insistono con le loro velleità pianificatorie.

Come ed a quale velocità tale avvicinamento dovrà avvenire è una risposta che arriverà dalla sfera di cristallo dell’analisi di sostenibilità del debito (DSA) eseguita dalla Commissione. Saranno loro a decidere se quella leva sarà “fero o piuma”. Sarà la DSA (strumento complesso e poco trasparente) a guidare il disegno della “traiettoria tecnica” sostanzialmente imposta dalla Commissione con il subdolo metodo della scelta lasciata solo formalmente allo Stato membro. Non si capisce in cosa consista la semplificazione, quando saremo costretti a destreggiarci con una lunare DSA e con piani elefantiaci, peraltro scritti sull’acqua.

Il piano apparentemente uscito da un negoziato, equivale alla scelta della mannaia da parte di chi si avvia al patibolo e la traiettoria di riduzione sarà personalizzata per ciascuno Stato con l’obiettivo minimo, per gli Stati con un deficit/Pil superiore al 3%, di una riduzione non inferiore a 0,5 punti all’anno.

Questo aspetto, che tanto clamore ha suscitato nei primi commenti telecomandati dalle veline fatte accortamente uscire dalla Commissione, è forse il meno rilevante. Se guardassimo il Def presentato pochi giorni fa, il sentiero di riduzione del deficit/PIL già soddisfa largamente tale parametro. Così come è soddisfatto anche il requisito della crescita della spesa ad un tasso inferiore a quello di crescita del PIL potenziale.

Allora qual è il vero pericolo per noi, il vero peggioramento rispetto alle attuali regole (ancorché sospese)?

L’introduzione sotto mentite spoglie di un immenso potere negoziale e discrezionale a favore della Commissione, con un continuo andirivieni tra Roma e Bruxelles sul modello di quello in atto da alcuni mesi per il PNRR. Un’esperienza che parla già da sola.

Un metodo che – come prefigurato dal professor Giovanni Tria e perfino da Lorenzo Bini Smaghi – consegna ad una trattativa “opaca ed indeterminata” una delle leve della politica economica del nostro Paese e ridurrà il Parlamento ad un “bivacco di manipoli”. Questa volta per davvero.

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