Quale che sia la conclusione della crisi di governo – visto il mandato ricevuto da Mario Draghi al Quirinale di provare a formare un nuovo governo – le forze politiche e sociali, oltre che ad acquisire e ad impiegare proficuamente i fondi europei, dovranno pur cominciare a discutere misure che potremmo definire eufemisticamente impopolari.
La crisi italiana si trascina da parecchi anni e delle maggiori criticità non possiamo imputarne le responsabilità unicamente ai governi più recenti, ma vi è pur sempre un momento in cui ci si avvicina pericolosamente al punto di rottura che può travolgere gli equilibri sociali esistenti e produrre danni assai gravi.
Dopo il fallimento del progetto referendario del 4 dicembre 2016, l’obiettivo di rendere il paese più governabile é stato sostanzialmente abbandonato e ci ritroviamo con un taglio discutibile del numero dei parlamentari e con la tentazione di ritornare ad una legge elettorale proporzionale che abbandona le “vocazioni maggioritarie” di destra e di sinistra. Manca una riflessione seria su come uscire da una situazione che sembra far acqua da tutte le parti.
L’unica vera convergenza dei partiti e delle forze sociali, dove si ritrova davvero l’unità nazionale, è quella di votare misure assistenziali, identificando il “Recovery Fund”, come risorse piovute dal cielo e non come debiti che dovremo, o meglio le generazioni future dovranno restituire. Anche la parte delle sovvenzioni, che pesa sul bilancio autonomo Ue, dovrà essere finanziato in ultima analisi dagli Stati membri.
È vero che il Pnrr, su cui si basa sul Recovery Plan italiano, prima o poi si farà, che si fisseranno obiettivi coerenti con il disegno strategico della Ue, tappe intermedie, si misureranno gli effetti di ogni singola misura sulle priorità e sul quadro d’insieme, ma oggi tutto rimane sulla difensiva e non si vedono visioni d’insieme credibili capaci di accelerare la tendenza di ripresa di un’economia che stenta molto a partire e nei prossimi due anni sembra rimanere al di sotto del 4% dopo il crollo (8,8%) del Pil 2020.
Si moltiplicano i segnali di allarme, dallo spread dei nostri titoli di stato superiore a quelli della Grecia al numero crescente di coloro che hanno perso il lavoro o lo cercano (2.250.000 unità) e a più di 3 milioni di cassintegrati Covid, cui si aggiungono i lavoratori autonomi colpiti dalla crisi. Ma come reagire?
Basta prorogare e rifinanziare la cassa integrazione e i (magri) ristori oppure è anche il momento di una gestione ordinata dell’uscita dalla emergenza sanitaria tornando ad occuparsi di investimenti pubblici e privati, liberati dalle catene della burocrazia, accompagnandoli con una politica attiva del lavoro incisiva che sappia valorizzare al meglio i nostri “giacimenti” di forza lavoro, attraverso una efficace formazione e riqualificazione professionale?
Gli ultimi due governi hanno fatto ben poco a questo riguardo se non adottare provvedimenti, come quelli del “decreto dignità” che hanno aggravato la situazione. La maggior criticità che frena lo sviluppo non è l’ammontare del debito pubblico, ma la insufficiente crescita della produttività. Non si tratta di riproporre arcaici modelli di sfruttamento del lavoro, ma di accompagnare, in particolare a livello di contrattazione aziendale, la diffusione delle nuove tecnologie con un’organizzazione del lavoro che premi la qualità, e incentivi la crescita professionale.
Il “secolo breve” è stato attraversato da due spaventosi eventi di guerra ma il modo in cui l’Europa ne è uscita non è stato uguale: il primo dopoguerra è stato segnato da rivoluzioni e nazionalismi che hanno distrutto anche le fragili democrazie ereditate dal secolo precedente, il secondo ha vissuto una ricostruzione, seppur dolorosa, che ha dato un futuro anche alle classi più povere e ha restituito la libertà e la democrazia. Quest’ultimo è il modello a cui dobbiamo guardare cogliendone gli aspetti più attuali. Il blocco dei licenziamenti nel secondo dopoguerra fu cancellato a prezzi sociali molto alti. Oggi abbiamo la possibilità di disporre di risorse e strumenti che rendono meno difficile la mobilità del lavoro. Ma bisogna fare in fretta perché più il tempo passa più è difficile garantire un processo di graduale ricollocamento. Le forze sociali e in primo luogo le organizzazioni sindacali dovrebbero favorire questo percorso. Bisogna rapidamente invertire la tendenza e non rimanere in una posizione attendista o peggio solo difensiva limitandosi a scagliare anatemi contro l’austerità o a vagheggiare un improbabile cancellazione del debito degli Stati.
È la stessa Ue a prevedere già dal 2023 un rientro del debito pubblico e la riduzione dei disavanzi annuali di bilancio che i paesi dell’Unione dovranno cominciare a porsi. Quando tra alcuni mesi si ricomincerà a parlare di politiche attive del lavoro e di riordino degli ammortizzatori sociali, di riforma delle pensioni, di imposte patrimoniali, di revisione degli estimi immobiliari o di riduzione delle detrazioni fiscali ritornerà l’incubo dell’Europa “matrigna” o si comincerà a riflettere seriamente sulle misure selettive da assumere per un graduale ma difficile e necessario ritorno del debito pubblico a livelli sostenibili? L’Ue pone condizione per il “Recovery” l’attuazione di alcune riforme che per definizione non possono essere prive di conseguenze. La digitalizzazione della Pubblica Amministrazione comporterà l’acquisizione di nuove competenza professionali ma determinerà anche notevoli esuberi di personale. Sarà possibile governare questa situazione attraverso i normali percorsi di pensionamento? La stessa scuola avrebbe bisogno di un radicale cambiamento nei programmi, negli ordinamenti e nell’organizzazione dell’insegnamento che non potranno essere garantiti solo attraverso nuove assunzioni.
Senza entrare nel merito di altre gravi criticità, è evidente che lo scenario è preoccupante e che si potranno ottenere risultati, non in tempi brevi, solo con un approccio costruttivo e coerente di tutte le forze politiche e sociali per individuare misure eque ed efficaci. Evitando un retorico richiamo al governo di unità nazionale o di salute pubblica che dir si voglia e al di là del valore salvifico che si attribuisce alle elezioni, è del tutto chiaro che i soggetti in campo sono lontani dal ritrovare quello che in matematica si chiama massimo comun divisore e che consiste in un minimo necessario di obiettivi condivisi per tornare a crescere. Goffredo Bettini, che viene considerato l’eminenza grigia del Pd, ha dato una sua interpretazione della realtà indicando il suo partito come un elefante buono che si porta in groppa alcuni rumorosi suonatori di tamburello. Questa elegante immagine non è culturalmente molto lontana da quella, forse un po’ sprezzante, che diede Palmiro Togliatti negli anni cinquanta quando, parlando di due parlamentari dissidenti del Pci (Cucchi e Magnani), affermò che anche nella criniera di un nobile cavallo bianco potevano esserci due pidocchi.
Al di là di come l’abbiano presa gli alleati potenziali, forse Bettini ha qualche ragione ma suscita stupore il fatto che nel mezzo di una crisi epocale l’unico partito tradizionale sopravvissuto allo tsunami mediatico giudiziario abbia come priorità, del tutto legittima, il nome del futuro capo del governo mentre rimane avvolta nelle nebbie una piattaforma politica che indichi “il cambiamento” (le riforme che anche l’Ue chiede) e come si intenda realizzarlo.
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