Erano da poco passate le 21, quando il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha enunciato un lungo elenco di “urgenze” che lo facevano propendere per la soluzione di affidare l’incarico ad una personalità di “alto profilo”. Tra queste, oltre all’emergenza sanitaria, spiccavano gli impegni con la Ue ed i “grandi fondi europei” in arrivo. Dopo pochi minuti, veniva annunciata ufficialmente la convocazione al Quirinale di Mario Draghi.
Non si azzardano previsioni di alcun genere sulla riuscita del tentativo dell’ex presidente della Bce, ma si può ipotizzare uno scenario che discende proprio dalle parole di Mattarella.
Praticamente per tutto il 2021, ma potremmo estendere l’orizzonte temporale anche oltre, l’agenda politica italiana è di fatto dettata da Bruxelles. Un pilota automatico innestato da tempo che prevede, in ordine sparso:
1) Definizione del Recovery plan ed invio alla Commissione entro il 30 aprile.
2) Valutazione del piano da parte della Commissione entro le 8 settimane successive.
3) Approvazione del piano da parte del Consiglio entro le 4 settimane successive.
4) Incasso dell’anticipo del 13% dei sussidi e forse dei finanziamenti (una cifra che potrebbe variare dai 9 ai 25 miliardi).
5) Approvazione della Legge di ratifica della riforma del Trattato del Mes.
Il tutto dando per scontato ciò che scontato non è, e cioè che tutti Paesi ratifichino le nuove risorse proprie a disposizione della Ue e che Consiglio ed Europarlamento completino l’adozione del regolamento che disciplina il Recovery Fund (RRF).
In questo scenario, Draghi ha un vantaggio su qualsiasi altro nostro altro rappresentante, nello scenario politico e parlamentare dato: conosce alla perfezione tutti i meccanismi che regolano il (mal)funzionamento delle istituzioni unionali.
Da Bruxelles a Berlino a Francoforte, non c’è segreto per lui. E soprattutto, da Presidente della Bce, si è fatto una fama di uomo deciso, capace di imporre anche scelte potenzialmente divisive. Come è spesso accaduto nel Consiglio della Bce.
È sicuramente rispettato, se non temuto.
Allora se proprio l’Italia deve essere costretta a bere l’olio di ricino costituito da questi pseudo aiuti e, subito dopo, delle politiche recessive imposte dal Patto di Stabilità, non è meglio che ci sia Draghi a negoziare questi dossier decisivi, cercando di sfruttare la propria autorevolezza ed evitando che l’Italia sia “bullizzata” come è accaduto con Giuseppe Conte e Roberto Gualtieri, spesso trattati alla stregua di meri esecutori?
In altre parole – considerato il percorso di guerra già disegnato e l’impossibilità di avere altri rappresentanti democraticamente selezionati – è meglio affidarsi a chi il nemico lo conosce, proprio perché ha operato tra le sue fila e potrebbe ottenerne relativa clemenza?
Non aveva molto senso continuare ad affidarsi a chi il nemico lo conosceva ma eravamo pressoché certi che avesse l’unico obiettivo di accettarne incondizionatamente le richieste.
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