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La lezione (filosofica) del Coronavirus. Il pensiero di Ocone

"Ocone's corner”, la rubrica settimanale di Corrado Ocone, filosofo e saggista

Il processo di globalizzazione che si suole far iniziare convenzionalmente nel 1989, cioè con la “caduta del muro di Berlino”, non solo non è stato un processo esclusivamente economico, ma forse non lo è stato nemmeno primariamente.

La vera “rivoluzione” iniziata quell’anno è legata, con molta probabilità, allo sdoganamento della rete, con l’autorizzazione a usarla data ai privati dal Dipartimento di Stato americano che già se ne serviva per scopi militari.

Quella che allora è partita è stata una rivoluzione basata sul più immateriale degli elementi: i dati informativi, scritti e visuali, alla portata di tutti in tempo reale con un semplice clic sui monitor dei computer e poi degli smartphone. Il mondo, da analogico che era, è diventato digitale. E da quel momento esso è risultato veramente interconnesso come un unico “villaggio globale”, senza barriere e confini fisici o spaziali.

L’economia stessa si è sempre più sganciata dalla sua base reale e si è finanziarizzata: a tal punto da aver portato a limiti inimmaginabili quel processo di astrazione che già Karl Marx vedeva legato all’uso del denaro. La moneta oggi non è che un insieme di dati che viaggiano online.

Un trionfo dell’immateriale, appunto, ovvero di ciò che è disincarnato, astratto, virtuale. Il sistema ha funzionato, tutto sommato. E i “virus” (malaware) che pure hanno viaggiato sulla rete hanno sì messo spesso in crisi i sistemi operativi di aziende, amministrazioni pubbliche e private, servizi di pubblica utilità, ma per fortuna non hanno mai superato il livello di guardia.

Il tanto temuto millennium bag, nel passaggio al 2000, si è rivelato nella sostanza inconsistente. Ciò non significa affatto che attacchi cibernetici, vere e proprie guerre su base mondiale, non possano prendere corpo in futuro, tanto che le tematiche e le politiche di difesa che hanno preso il nome di cybersecurity sono oggi una priorità per la maggior parte dei governi del mondo. Strategie immunitarie di prevenzione indispensabili e sperabilmente efficaci.

Così impegnati sul terreno del virtuale, ci siamo perciò trovati del tutto impreparati al brusco ritorno alla realtà materiale impostoci dalla comparsa e ora dalla diffusione del cosiddetto “Coronavirus”. Il quale certo si ascrive nel filone classico delle epidemie e delle pandemie, ma deve fare i conti con un contesto storico e ambientale segnato appunto dalla globalizzazione, o interconnessione del mondo, e quindi del tutto diverso da quello delle altre epoche storiche. Risulta confermato così anche da questa parte che la nostra è a tutti gli effetti una “società del rischio globale” (Risikogesellschaft secondo l’espressione del compianto sociologo tedesco Ulrich Beck).

Ma l’aspetto più interessante, e francamente anche più preoccupante, è che politiche immunitarie o di difesa classiche sono, nell’epoca della globalizzazione, del tutto inefficaci. “Cittadini del globo” viaggianti quali siamo, il rischio è che, quando un virus reale e non informatico viene focalizzato, sia già troppo tardi per circoscriverne e isolarne i focolai,

Né è dato concepire come un territorio possa essere “sigillato” del tutto, con un “cordone sanitario”, senza piegarne oggi la vita: come si può più concepire una vita basata su un’economia autarchica o di mera sopravvivenza? Tutto lascia immaginare che la progressione di un contagio, in un’epoca globalizzata come l’attuale, segua una progressione geometrica e non aritmetica, mentre la messa a punto di un vaccino ha dei tempi tecnici insormantabili.

Se questa volta riusciremo a scamparla, come per il bene dell’umanità non possiamo non augurarci, il Coronavirus dovrà servirci da monito. Per prepararci a scenari inquietanti e distopici di fronte a cui in futuro potrebbero metterci innanzi altri virus, casomai creati in laboratorio per essere utilizzati in “guerre batteriologiche” o semplicemente sfuggiti per errore al controllo degli scienziati.

Occorre studiare adeguate e nuove strategie di prevenzione e difesa. E occorre anche, su un altro piano, perdere un po’ della nostra hybris attuale: la nostra raggiunta onnipotenza tecnica poggia infatti sulle basi di sempre, cioè sulla struttura fragile e precaria della condizione umana.

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