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Che cosa pensano gli Stati Uniti dell’Indo-Pacifico

Il Consiglio di sicurezza nazionale degli Stati Uniti ha desecretato le linee guida strategiche per l’Indo-Pacifico, che hanno guidato l’amministrazione Trump in questi tre anni. L'analisi di Giuseppe Gagliano

 

Sempre alla ribalta internazionale il ruolo determinante che l’Indo-Pacifico riveste nella strategia americana.

Ebbene, il Consiglio di sicurezza nazionale degli Stati Uniti ha desecretato le linee guida strategiche per l’Indo-Pacifico, che hanno guidato l’amministrazione Trump in questi tre anni.

Quali sono gli aspetti più rilevanti che emergono dalla introduzione redatta da Robert O’Brien assistente del presidente Trump per l’Nsc?

In primo luogo, il relatore sottolinea come dal punto di vista storico gli Stati Uniti sono sempre stati una nazione con una proiezione verso l’Indo-Pacifico:”Gli Stati Uniti sono e sono sempre stati una nazione indo-pacifica. Dalle nostre prime navi mercantili che partirono per la Cina appena otto anni dopo la Rivoluzione americana, allo stabilire la nostra prima presenza diplomatica in India nel 1794″.

In secondo luogo, secondo la narrazione americana tutt’altro che neutrale ma chiaramente strumentale, l’impegno degli Stati Uniti nella regione sarebbe stato costruito su una logica di cooperazione pacifica che ha nel corso del tempo determinato solo ricchezza e prosperità.

In terzo luogo, la postura cinese viene letta come esclusivamente offensiva, volta a destabilizzare l’equilibro di potere pacifico posto in essere dagli Usa. Una narrazione questa che è speculare a quella fatta sia dal Dipartimento di Stato sia dalla Nato di cui abbiamo già discusso su queste pagine. Più precisamente, l’ottica manichea con la quale viene interpretata la conflittualità di potere tra Cina e Usa — del tutto naturale dal punto di vista della dinamica conflittuale tra nazioni che lottano per l’egemonia tanto quanto fu quella che vide contrapporsi Atene a Sparta — induce il relatore a definire la presenza cinese come una influenza maligna.

In quarto luogo O’Brien indica negli Usa i difensori della prosperità e della stabilità regionali, della sovranità, della libertà di navigazione e di sorvolo e della reciprocità nel commercio e negli investimenti; al contrario invece la Cina viene interpretata come una nazione la cui proiezione di potenza mira a sottomettere le nazioni dell’Indo-Pacifico alla logica dispotica e distopica del Partito Comunista cinese. Ancora una volta — come ai tempi di Roosevelt e di Reagan — gli Usa si presentano come i difensori dei diritti individuali e dello stato di diritto. Per smentire questa narrazione bucolica basterebbe guardare al modus operandi americano in Asia durante la Guerra fredda analogo a quello posto in essere dall’Impero del Male e cioè dell’ex-Urss. Si pensi, a tale proposito, alla guerra del Vietnam o alla dittatura di Marcos nelle Filippine.

In quinto luogo il consigliere O’Brien, in uno raro slancio di sincerità, ammette che gli Usa — essendo la più grande economia del mondo (ma minacciata dalla Cina sottolineavamo noi), con le forze armate più forti (che hanno perso sia in Vietnam che in Afghanistan) e con una vivace democrazia (minacciata costantemente dalla agenzie di sicurezza come dimostrano le rivelazioni scomode di Snowden) — hanno il dovere di guidare la regione dell’Indo-Pacifico. Una motivazione questa che — con le opportune correzioni lessicali — ricorda quella del colonialismo europeo e, in particolare, di quello inglese.

In sesto luogo, O’Brien conferma quanto più volte sottolineato su queste pagine, cioè che l’egemonia americana può attuarsi solo a condizione che si realizzi una cooperazione in funzione anti-cinese con il Giappone, l’Australia, Taiwan e l’Asean da utilizzare come cavallo di Troia in funzione anti-cinese.

Infine — e siamo al settimo aspetto — di particolare importanza è il fatto che l’analista sottolinei come fin dal 2007 l’India — sotto l’amministrazione dell’allora primo ministro Manmohan Singh — abbia svolto — e svolga — un ruolo chiave per consolidare l’egemonia americana.

In ultima analisi, questo documento è certamente rilevante soprattutto per due motivazioni: da un lato perché vuole dimostrare l’efficacia della strategia dell’amministrazione Trump nella regione dell’Indo-Pacifico (credibilità messa in discussione dai recenti eventi di Capitol Hill) e dall’altra parte perché costituisce un documento significativo sotto il profilo della propaganda, cioè sul modo con cui l’America percepisce se stessa e sul modo con il quale gli Usa vorrebbero che le élite internazionali percepissero il suo ruolo nel mondo.

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