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CityScoot

L’ultima vittima della sharing economy. Gli scooter elettrici di CityScoot hanno già la batteria scarica?

Nel 2020, a un solo anno dal suo arrivo, CityScoot aveva lasciato Roma mentre dal primo dicembre abbandonerà Milano e Torino, le ultime due città italiane in cui era attivo il servizio di noleggio

“Avremmo preferito darvi una bella notizia…” Inizia così, mestamente, la e-mail inviata da CityScoot, startup parigina di sharing di motorini elettrici, a tutti gli abbonati milanesi e torinesi per dire loro che col mese di dicembre non troveranno più per strada i caratteristici motorini dalla livrea bianca e azzurra. La realtà francese lascia infatti l’Italia.

PERCHE’ CITYSCOOT LASCIA MILANO E TORINO?

“Da qualche tempo – si legge nella missiva -, Cityscoot affronta notevoli difficoltà finanziarie. Nonostante i nostri numerosi sforzi per restare aperti, le nostre energie non sono bastate. Siamo costretti a sospendere il servizio a Torino e a Milano dal 30 novembre a tempo indeterminato. Abbiamo un solo obiettivo: tornare. Faremo tutto il possibile per mantenere questa promessa”.

Il denaro già caricato dagli utenti sulla piattaforma potrà essere usato per noleggiare scooter fino al 30 novembre compreso. Dopodiché per trovare uno scooter della compagnia bisognerà valicare la frontiera e andare in Francia.

LA FUGA DALL’ITALIA (SU SCOOTER ELETTRICI)

CityScoot era arrivata a Milano con una flotta di 500 scooter elettrici, divenuti via via 2mila tra i vari Comuni coperti dal servizio. Che le cose non stessero andando bene per la realtà parigina ex post lo si intuisce facendo qualche ricerca in rete e recuperando questo vecchio articolo di Roma Today: Cityscoot lascia Roma: “Ci concentriamo su città dove la domanda è più dinamica”.

Risale all’agosto del 2020. A quando cioè CityScoot inviò una comunicazione analoga a quella odierna ai propri utenti capitolini: “Cari utenti nonostante tutti i nostri sforzi per offrire un servizio di qualità con un gran numero di scooter elettrici a disposizione della città di Roma e un team qualificato impiegato sul posto, non siamo riusciti a cambiare le abitudini di mobilità”.

Il responsabile, per la compagnia, in quel caso fu il lockdown: “Purtroppo, dalla fine dell’isolamento, la nostra attività a Roma non è mai tornata agli standard storici, a differenza di tutte le altre città in cui operiamo”. Una spiegazione che però non convinceva troppo, dal momento che CityScoot operava nella capitale da nemmeno un anno (alla cerimonia di debutto, nel giugno del 2019, presenziò anche l’allora sindaca di Roma, Virginia Raggi) per lasciarla subito finito il lockdown, nell’estate del ’20. Un arco temporale davvero esiguo per affermare che le corse non erano tornate ai livelli pre-pandemici.

La transizione ecologica e l’entusiasmo di alcune amministrazioni cittadine, come pure i numerosi report con numeri piuttosto dubbi sulla sharing economy negli ultimi anni hanno spinto alla nascita e all’arrivo di numerose startup di mezzi elettrici condivisi. Tra queste, appunto, anche la francese Cityscoot, nata a Parigi nel 2016 e arrivata a Milano e a Roma nel 2019. Sulla carta il mercato sarebbe dovuto esserci, anche perché le città in questione stanno via via blindando il centro e quartieri sempre più periferici al traffico “inquinante”. Ma così non è stato.

I CADUTI DELLA SHARING ECONOMY

Il problema forse è culturale, come dimostrano i tanti sinistri avvenuti sui monopattini elettrici a noleggio che hanno spinto Parigi a bandirli per legge e l’Italia a introdurre norme ad hoc del Codice della Strada.

Non dimentichiamo poi le bici ripetutamente gettate nei Navigli o le auto vandalizzate. La stessa Cityscooter nella sua breve permanenza a Milano e a Torino ha subito circa 650 furti di batterie “EP” al litio. “Un danno da milioni di euro – scrive la testata meneghina Il Giorno – che ha messo in crisi le finanze della società. E a niente è servita la decisione di alzare le tariffe, arrivata a febbraio di quest’anno.”

Tacciono i social della startup parigina (l’ultimo post su Facebook risale al 21 luglio per celebrare i sette anni di attività), che nel proprio sito annovera ancora la copertura di Milano e Torino, mentre ormai il noleggio potrà avvenire solo a Parigi.

Tra i caduti eccellenti della sharing economy ricordiamo Eni, che nel 2017 ritirò dalle strade della Capitale i suoi Piaggio Mp3 rossi mentre nell’anno successivo toccò al servizio di bike sharing di Obike, che a Roma ha ancora decine di bici da recuperare nel Tevere.

QUEL CHE ACCADE IN CINA DOVREBBE METTERCI IN GUARDIA?

Quando si parla di “mobilità del futuro” si guarda alla Cina. Potrebbero essere un monito per gli imprenditori europei le immagini, a dir poco spettacolari, che immortalano migliaia e migliaia di bici e motorini accatastati fino a formare colline artificiali delle startup dello sharing fallite. O  foto e filmati  analoghi, ma persino più impressionanti, delle auto elettriche a noleggio abbandonate e confiscate  a decine di migliaia nel tentativo di soddisfare i creditori.

C’è un precedente eccellente: la caduta del colosso asiatico Bluegogo di Li Gang, che aveva sparso seicentomila bici a noleggio solo in Cina. La startup fallì dopo lo sbarco a San Francisco nonostante avesse raccolto 90 milioni di dollari. E lasciando debiti ai fornitori per oltre 1,5 milioni.

LE RUOTE SGONFIE DI BLUEGOGO

Solo pochi mesi prima del fallimento Internazionale la presentava così nell’articolo “In Cina il bike sharing vive un momento di gloria”: “È stata fondata da un costruttore di bici, SpeedX, che ne produce 500mila all’anno, una fetta delle quali prende la via del bike sharing. La concorrenza è aperta e il sottoscritto – ammetteva il reporter -, che gira a Pechino con la propria, di bicicletta, deve confessare che ci sta facendo un pensierino: niente seccature con la rastrelliera sotto casa – intasata dalle bici dei vicini, arrugginite e impolverate –, niente manutenzione e tutto per un prezzo irrisorio: dopo aver lasciato un deposito – 99 yuan per Bluegogo o per Ofo (13 euro, gratis per gli studenti), 299 per Mobike (40 euro) – si spendono al massimo dieci yuan al giorno (poco più di un euro).”

Poi però lo stesso autore lasciava da parte l’iniziale entusiasmo e, guardando ai dati economici ammetteva: “Per ora l’affare del bike sharing sembra uno schema Ponzi che si regge sui depositi iniziali lasciati da chi le prende in affitto, dato il basso costo del servizio che non restituisce profitti sufficienti. E poi servono la manutenzione, le riparazioni contro il vandalismo, e la lotta ai furti: una bicicletta rubata e rivenduta online – magari previa modifica e riverniciatura – può arrivare a tremila yuan. Ma le tre aziende concorrenti stanno cercando di conquistare il centro del ring, e non badano a spese.”

Solo dopo pochi mesi, sul finire del 2017, Bluegogo portò i libri in tribunale. Anzi, in realtà accadde qualcosa di più rocambolesco: licenziamenti in tronco e uffici lasciati deserti con affitti da pagare. All’epoca i media cinesi furono stranamente aggressivi, nonostante si trattasse di una realtà autoctona e ipotizzarono la fuga dell’amministratore delegato. Non accadde. Coi mezzi in sharing, del resto, non si va lontano.

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