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Tunisia

Per non dimenticare l’invasione russa dell’Ungheria e della Cecoslovacchia

L'analisi di Polillo.

In un momento così drammatico della storia europea, mentre sulla scena si risente lo scalpitio dei 4 cavalieri dell’apocalisse, ha senso tentare di misurare con il bilancino torti e responsabilità? Evocare vicende lontane, come l’Iraq, l’Afghanistan, o la Serbia, che poco hanno a che fare con l’attualità e rischiano soltanto di distogliere l’attenzione dal dato più saliente e pericoloso di un possibile futuro prossimo venturo? Rispondere a questa domanda è quasi impossibile. Bisognerebbe poter disporre della supponenza di tanti putiniani italiani: sicumera nelle proprie posizioni e vittimismo per le inevitabili critiche di riflesso.

Ed allora conviene ricordare qualche lontano episodio del passato, per vedere, a distanza di tempo, quali furono gli errori compiuti da coloro che, gettando il cuore oltre l’ostacolo, si resero responsabili di improvvide adesioni. Era il 23 ottobre del 1956, nel primo pomeriggio. Pochi giorni prima, Władysław Gomułka era stato eletto segretario generale del Partito Operaio Unificato Polacco, dopo un lungo braccio di ferro con i russi, che non apprezzavano il suo spirito “revisionista”. Una speranza per tutti i popoli dell’Europa centrale sottoposti al giogo stalinista. Prima del 1953, epoca della morte del dittatore georgiano, ma anche dopo, nonostante l’avvio della destalinizzazione. Nel ‘53 c’era stata la rivolta operaia di Berlino est, soffocata nel sangue. Nel 1956 la cacciata di Imre Nagy, primo ministro ungherese, da parte dei russi. Ebbene quel giorno, gli studenti dell’Università di Tecnologia e di Economia di Budapest si riunirono di fronte alla statua di Petõfi a Pest, per inscenare una manifestazione pacifica di solidarietà a favore di Gomułka.

Durissima e minacciosa la reazione del Partito comunista ungherese, per bocca del suo segretario Ernő Gerő, legato a filo doppio con il PCUS. Tanto più che alla manifestazione aveva partecipato con un breve discorso, per la verità non particolarmente apprezzato dagli stessi studenti, lo stesso Imre Nagy. Fu benzina buttata sul fuoco. Le minacce del segretario comunista fecero da catalizzatore. Immediatamente una folla, via via crescente, si radunò spontaneamente per dar luogo alla protesta. Ad essa si unirono molti soldati ungheresi di servizio in città. Che strapparono le stelle sovietiche dai loro berretti, lanciandole alla folla. Un segnale, destinato ad avere l’effetto di un terremoto. In breve una folla di almeno duecentomila persone (ma il numero preciso è difficile da calcolare), senza leaders riconosciuti, dopo aver demolirono l’enorme statua di Stalin e distrutto diverse librerie sovietiche, si diresse verso la sede della radio ungherese.

Fu allora che una delegazione si recò all’interno dell’emittente per far leggere un proprio comunicato in 16 punti. Ma i suoi membri furono arrestati provocando la reazione della folla, che assaltò il palazzo, determinando l’intervento della famigerata polizia politica: la AVH che aprì il fuoco sui manifestanti, facendo deflagrare la protesta in tutto il Paese. L’intervento delle truppe sovietiche fu quasi immediato, anche a seguito del via libera dato dal comitato centrale del partito comunista ungherese. Ma fu allora che dalla protesta, seppur diffusa in tutto il Paese, si passò ad una vera e propria insurrezione. Al termine della quale si contarono poco più di 3 mila morti: in assoluta prevalenza ungherese.

Ben poca cosa rispetto alle distruzioni del tardo inverno ucraino ed il sale sparso sulle città polverizzate. Ma sufficiente per creare in tutto l’Occidente un sentimento di rivolta contro una violenza inaccettabile. Naturalmente, nemmeno allora mancarono i tentativi volti a giustificare la repressione russa. Anche in quel caso si parlò di ingerenze occidentali. Di una controrivoluzione in atto per abbattere il sol dell’avvenire del socialismo. A ben vedere, qualcosa di più nobile, rispetto agli attuali tentativi di salvare Putin, elencando colpe o presunte tali di americani ed inglesi, nel tentativo di inserire un cuneo nello schieramento Atlantico.

In Italia, Palmiro Togliatti schierò il partito a favore dell’intervento sovietico. Si trattava – secondo L’Unità – di scontri derivanti da “tentativi di provocazione di elementi ostili alla democrazia popolare che hanno cercato dapprima di trasformare una pacifica manifestazione di solidarietà con la Polonia…in una dimostrazione contro il regime popolare; e constatato il fallimento di questo obiettivo, hanno sferrato attacchi armati contro la stazione radio… Gruppi di teppisti lanciavano slogan che incitavano apertamente ad una azione controrivoluzionaria».

Anche in quel caso si parlò della minaccia esercitata dalle “truppe dell’ONU – quelle americane di stanza in Germania” come denunciò Lucio Lombardo Radice dalle colonne di Nuovi Argomenti (la rivista legata al Pci, diretta da Alberto Moravia e Alberto Carocci) oppure dell’azione di “spregevoli provocatori..fascisti e nostalgici del regime di Horthy” (dal leader che aveva governato l’Ungheria tra le due guerre mondiali, schierandosi alla fine con i nazi-fascisti), secondo uno dei tanti editoriali di Pietro Ingrao, allora direttore dell’Unità . Impressionanti analogie con i discorsi più attuali dei putiniani nostrani a proposito delle ragioni dell’invasione dell’Ucraina. Che pure si condanna in linea di principio, salvo poi teorizzare la necessità di rimanere con le mani in mano.

Non tutti, per fortuna, reagirono allo stesso modo. Vi furono dapprima le coraggiose posizioni di Giuseppe Di Vittorio, grande segretario generale della CGIL, e di un giovane deputato, Antonio Giolitti, che di lì a poco lascerà il Partito per approdare al PSI. Cui fece seguito il Manifesto dei 101, con il quale i firmatari (tra cui Carlo Muscetta, Natalino Sapegno, Renzo De Felice, Lucio Colletti, Alberto Asor Rosa, Enzo Siciliano, Antonio Maccanico, Vezio Crisafulli, Piero Melograni, Alberto Caracciolo, Mario Tronti solo per citarne alcuni) si dissociavano apertamente dalle posizioni assunte dal partito. Facendo prevalere la ragione e l’amore per le libertà democratiche su un malinteso senso di appartenenza.

Che rimane oggi di quelle posizioni a favore dei carri armati russi? Ben poca cosa ed un susseguirsi di pentimenti e ripensamenti, ma il danno era stato irreversibile. Pagò il PCI di Togliatti, costretto dopo poco più di un decennio a misurarsi con un’altra invasione: quella della Cecoslovacchia. Stessa storia e stessa dottrina: quella della “sovranità limitata”, secondo la quale alcuni Paesi hanno, tuttora, il triste destino di non potersi muovere al di fuori di un orbita decisa dai cannoni di Mosca. Sennonché, allora, c’erano gli accordi di Yalta, che in qualche modo potevano giustificare la divisione del Mondo in blocchi contrapposti. Oggi non esiste neppure quella giustificazione: ma semplice volontà di potenza di un Paese, come la Russia di Putin, che non é capace di vivere in pace, utilizzando al meglio le immense risorse naturali di cui dispone.

Allora fu il collante ideologico dell’internazionalismo proletario a giustificare alleanze innaturali, foraggiato dall’”oro di Mosca”, come documenteranno gli storici contemporanei: da Gianni Cervetti a Valerio Riva. Oggi quel collante non esiste più. In compenso l’assurda distribuzione della ricchezza in quel Paese – un pugno di oligarchi e milioni di russi costretti a vivere in condizioni di sussistenza – rappresenta indizio potente, che solleva interrogativi pesanti. Tali da rendere evidente l’intima incoerenza di tanti improvvisati avvocati a favore della causa del Cremlino.

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