Se l’arte è fatta per disturbare, come diceva Salvador Dalí, se l’arte “è una menzogna che ci fa riconoscere la verità”, secondo il paradosso di Pablo Picasso (e il suo Guernica, dipinto capolavoro, col bianco e col nero svela proprio la realtà della guerra coi suoi orrori), la sessantesima edizione della Biennale che si è aperta il 20 aprile a Venezia non è fuori dal mondo.
Non lo è fin dal titolo – “Stranieri ovunque” guerr- scelto dal curatore brasiliano, Adriano Pedrosa. Se gli stranieri sono ovunque, nessuno è straniero in patria, la patria dell’universo.
L’esposizione è immersa nel nostro eterno e drammatico presente già dalle prime parole del presidente, Pietrangelo Buttafuoco: “In tempo di guerra è necessario e urgente che i saggi, gli artisti, l’aristocrazia del pensiero facciano argine alla catastrofe incontrandosi, parlandosi, misurandosi nella dialettica”.
Ma eloquente è anche il silenzio del padiglione di Israele rimasto chiuso. Come se l’arte attendesse il cessate il fuoco a Gaza e aspettasse la liberazione degli ostaggi che Hamas detiene dal 7 ottobre, il sabato della barbarie contro lo Stato ebraico.
“Parla” il suono delle sirene d’allarme e delle esplosioni ripetuto da rifugiati che hanno vissuto la guerra in Ucraina, e riportato da un collettivo, “Open Group”, ospitato nel padiglione della Polonia.
Dare voce alla guerra scatenata da Vladimir Putin: anche questo è linguaggio artistico.
Né può mancare, nella novantina di nazioni che si esprimono, lo spazio della “martoriata Ucraina”, come l’evoca sempre il Papa, e dove si racconta la tradizione che diventa modernità: il ricamo delle tute mimetiche e delle divise per dare man forte ai soldati al fronte, e che unisce la popolazione nelle case. Anche con l’ago e col filo si può difendere la libertà.
Ma sarà il visitatore a scegliere i suoi luoghi, temi e colori per confrontarsi con l’arte perduta o ritrovata, per riflettere sull’uomo non più ad una, ma a molte dimensioni, per riscoprire un pianeta dolente che esige l’attenzione di ciascuno e la cura di tutti: l’arte come ponte sospeso tra il singolo e la comunità, fra creatività e laboriosità. L’arte che può dare futuro alla memoria.
In questo tempo fragile e incerto l’arte grida sconcerto, evoca paura, infonde coraggio ai tanti che non s’arrendono all’idea che siano le guerre a stabilire il destino dei popoli e delle persone.
Se c’è un filo rosso – ma sarebbe meglio definirlo verde, bianco e rosso, visto che la Biennale è un evento culturale e internazionale italiano – che unisce gli espositori e le varie forme d’arte rappresentate, è la voglia di vivere in pace, cioè di vivere.
Non una pace finta, non la retorica della pace, non una pace purchessia, bensì il desiderio autentico, collettivo e sempre più sentito di un mondo liberato da ogni oppressione e libero da ogni violenza.
La menzogna della guerra ci fa riconoscere la verità della pace.
)Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova)
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