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Sinistra Egualitaria

La sinistra egualitaria di Elly Schlein e l’europeismo di Giorgia Meloni

Il Bloc Notes di Michele Magno

Come nel passato quelli che non sapevano leggere e scrivere erano alla mercé degli istruiti, bisogna imparare a pensare per non essere sudditi del pensiero degli altri. Imparare a valutare per non essere soltanto oggetto di valutazione. Imparare a calcolare per non essere soltanto calcolati da Google, Facebook, Amazon, Microsoft, Apple. Imparare a prevedere per non essere soltanto strumento della previsione degli algoritmi. Imparare a immaginare il futuro per evitare che per noi lo immagini soltanto l’intelligenza artificiale.

In altre parole, viviamo in un tempo in cui il sol dell’avvenire è sempre più digitale e non scalderà tutti allo stesso modo. Tuttavia, ancora oggi sono molti gli italiani, e quanti li rappresentano nelle istituzioni della sovranità popolare, che non sembrano comprendere questa inedita realtà. Realtà che non viene insegnata nelle scuole, sebbene riempia ormai le giornate degli studenti. Giovani che tra qualche anno saranno lavoratori e cittadini adulti in un secolo ormai plasmato dalle “macchine che obbediscono ai bit senza peso”, come scriveva profeticamente nel 1985 Italo Calvino nella prima delle sue “Lezioni americane”. Purtroppo, nei discorsi della sinistra “egualitaria” abbondano le denunce del crescente divario tra chi ha e chi non ha, ma scarseggiano le denunce del divario forse più regressivo di tutti, ovvero quello tra chi sa e chi non sa. Eppure quest’ultimo, in fondo, è alla radice delle stesse diseguaglianze sociali. Dedico questa minuscola riflessione a Elly Schlein.

(Il Foglio)

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Forse chi ha la mia non più verde età ricorda un bel film di Nanni Loy, “Mi manda Picone” (1982). Racconta la frenetica ma vana ricerca di un operaio delle acciaierie di Bagnoli, scomparso in ambulanza dopo essersi dato fuoco davanti al consiglio comunale. Lo spettatore scopre lentamente, attraverso un viaggio tra i misteri di una Napoli che è la trasparente metafora dei vizi nazionali, che quell’operaio faceva mille mestieri diversi e aveva molte vite differenti. In altre parole, la sua identità sociale non era chiaramente definita, ma era ambigua e sfuggente, quasi inafferrabile. La sensibilità artistica del regista aveva colto acutamente la mutata percezione del lavoro di fabbrica, ormai vissuto come un ripiego e non più come motivo di orgoglio.

Dopo un decennio di lotte straordinarie che ne avevano celebrato la centralità, la classe operaia sembrava sulla via del tramonto, come già era stato intuito dai vignettisti di Cipputi, la tuta blu sfidata dalla modernità, e di Gasparazzo, il proletario disincantato e scansafatiche. Quarant’anni dopo, i sette milioni di dipendenti con qualifiche operaie continuano a essere considerati figli di un dio minore dalla sinistra politica italiana. Ricevono meno attenzione di quei giovanotti fanatici che si divertono a imbrattare la Barcaccia di Bernini o le tele di Van Gogh. Eppure non dovrebbe essere difficile capirlo: senza riconquistare il voto (in larga misura e non da ora perduto) di chi sgobba nelle attività manifatturiere non si va da nessuna parte.

(Il Foglio)

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Risale a Benedetto Croce la tesi del fascismo come parentesi passeggera di una storia che vantava nobili tradizioni: la civiltà latina, l’umanesimo rinascimentale, il Risorgimento liberale. Il filosofo abruzzese vi contrappose l’interpretazione del nazismo come rivelazione di una storia millenaria della Germania caratterizzata dal culto della forza e dell’obbedienza incondizionata all’autorità. Un diverso retroterra in cui si rispecchiava la diversa propensione criminale dei due regimi, assai più marcata e devastante nel caso del nazismo.

Quelle di Croce non erano le riflessioni distaccate di un intellettuale. Vi era sottesa l’esigenza di tutelare il futuro dell’Italia sconfitta. Più volte, infatti, egli le espose in esortazioni di natura politica rivolte agli Alleati, come nell’intervento fatto a Roma nel settembre 1944, in cui chiese che l’Italia non fosse punita per la guerra perduta e fosse anzi ammessa come alleata di pari grado fra i vincitori che dovevano stabilire le condizioni della futura pace europea. Croce allora asserì che non si poteva porre l’Italia dei Comuni e di Cavour sullo stesso piano della Germania di Bismarck, di Guglielmo II e di Hitler. La tesi sulle diverse origini storiche del fascismo e del nazismo fu condivisa dalla cultura cattolica, secondo la quale il fascismo non aveva espresso le proprie potenzialità totalitarie grazie agli anticorpi creati dalla tradizione cristiana, diametralmente opposta al “neopaganesimo razzista” del Führer.

Tra i principali esponenti di questo orientamento spicca la figura di Indro Montanelli. Dal libro “Il buonuomo Mussolini” (1947) fino ai corsivi sul Corriere della Sera, il giornalista toscano ha raccontato il fascismo come un regime blando, un autoritarismo bonario e paternalista, non privo di alcuni meriti presunti come il ristabilimento dell’ordine dopo le agitazioni operaie e contadine del “biennio rosso” (1919-1920), o come l’instancabile sforzo modernizzatore del paese, testimoniato dai “treni in orario”, dalle paludi bonificate, da impavidi sorvolatori atlantici. Questa lettura del Ventennio ha avuto e ha tuttora grande successo, perché in sintonia e già ampiamente familiare alla maggioranza dell’opinione pubblica. Insomma, mentre una memoria condivisa del passato è impossibile (gli Ignazio La Russa ci saranno sempre), è incomprensibile lo scetticismo con cui è stata accolta l’adesione proclamata dalla leader di FdI ai valori della Costituzione e dell’europeismo democratico.

(Il Foglio)

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“L’errore giudiziario qualche volta è l’effetto inconsapevole di un peccato d’orgoglio: il magistrato che ha infilato una strada, si rifiuta di ascoltare le ragioni di chi vuol dimostrargli che è sbagliata, perché è convinto che, se l’abbandonasse dopo averla presa, ne soffrirebbe la dignità della giustizia. Egli crede che sia in giuoco la giustizia, mentre è in giuoco soltanto il suo amor proprio: senza accorgersene, coll’ostinarsi nella sua tesi, da giudice si è trasformato in parte” (Piero Calamandrei, “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”, 1935).

 

 

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