Ma come, Elly, benedetta ragazza, anche se un po’ cresciuta. Perché ti è saltato in mente di mettere il tuo nome nel simbolo del partito – come Silvio Berlusconi a suo tempo e ancora oggi, da morto, col suo – appena dopo avere intestato “la ditta”, come la chiamava Pier Luigi Bersani, alla buonanima di Enrico Berlinguer? Dei cui inconfondibili occhi, paradossalmente misti di tristezza e allegria, gli iscritti al Pd quest’anno trovano la foto sulla tessera, destinata magari a sopravvivere nella collezione con quelle successive e precedenti.
È stata una decisione, questa sul ricorso all’immagine berlingueriana nel 40mo anniversario della morte, che pure è costata alla segretaria piddina parecchie polemiche nell’area post-democristiana, ma non solo, affrettatasi a prenotare per gli anni prossimi un santino compensativo, a scelta fra don Luigi Sturzo, Alcide De Gasperi, Aldo Moro. Ma anche – perché no? – Amintore Fanfani.
Non mi spingo fino a Giulio Andreotti nel Pantheon del Pd un po’ per non farlo rivoltare nella tomba e un po’ per evitare che nell’occasione riparta contro di lui, pur da morto, una fatwa del suo ex grande accusatore ancora sulla scena con articoli e interviste. È naturalmente Gian Carlo Caselli, convinto che quella dell’ex presidente del Consiglio imputato di mafia non fosse stata un’assoluzione piena ma a metà, mista ad una prescrizione inemendabile. E pazienza se nel frattempo la cosiddetta giurisdizione superiore ha ammonito a non scambiare la prescrizione per condanna, e praticamente diffidato altre Corti dal ripetere l’errore al quale invece l’ex capo della Procura della Repubblica di Palermo è rimasto attaccato come l’edera a un muro. E la lucida lui stesso ogni volta che qualche polemica gliene offre l’occasione, togliendole la polvere del tempo.
Un altro aspetto sorprendente della tentazione avvertita dalla Schlein, magari per reggere il confronto con Giorgia Meloni, l’antagonista con la quale attendiamo ancora tutti il confronto diretto in televisione promesso da entrambe, è la contraddizione fra la personalizzazione insita nel nome stampato nel simbolo e la contrarietà di principio, di carattere quasi costituzionale, al cosiddetto premierato all’esame del Senato, su iniziativa del governo in carica. O, in alternativa e persino in aggiunta, come ha detto di recente la Meloni, il presidenzialismo inteso come elezione diretta del presidente della Repubblica.
Nulla di personale, per carità, a proposito di personalizzazione, ma certe cose andrebbero approfondite e chiarite, prima di infilarsi in polemiche e avventure politiche delle quali si è poi costretti a riconoscere sempre troppo tardi l’errore, quando non è più possibile rimediarvi per gli effetti che ha già prodotto. Questa volta, grazie a Dio, il ripensamento sul simbolo è arrivato presto, ma il passaggio è rimasto infelice.