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Omicidio Cecchettin

Cecchettin, i femminicidi e la morte della privacy

L’aspetto più paradossale di questa occupazione manu militari della sfera emotiva di ciascun cittadino è che, nell’epoca in cui si sono create costose strutture pubbliche per la protezione della privacy, nemmeno le emozioni sono più un fatto privato ma assumono rilevanza pubblica e dimensione collettiva. Il corsivo di Teo Dalavecuras

 

“Cosa proviamo dopo l’assassinio di Giulia? Rabbia, paura, frustrazione, stupore? Be’, non basta. Troppe cose, gli uomini devono ancora capire”. Così Beppe Severgnini sulla prima pagina del Corsera, ultima colonna. “Angosciati come siamo dalla guerra d’Israele, abbiamo finito per distrarci da quella d’Ucraina”. Così Paolo Mieli, sempre sulla prima pagina del Corsera, prima colonna.

Da tempo sul quotidiano milanese – ma la tendenza è generalizzata – si fa un uso smodato della prima persona plurale. Nel senso che quando esprimono un’opinione i giornalisti, non è la loro ma la “nostra”, cioè quella che nutrono o dovrebbero (dovremmo) nutrire tutti noi. Pedagogia a buon mercato, considerato che molti quotidiani costano ancora solo 1,50 euro.

Personalmente non ho un’opinione sull’omicidio della giovane Giulia Cecchettin – questa l’accusa su cui si basa la richiesta di estradizione – per mano di Filippo Turetta, coetaneo ed ex compagno della vittima. Da un certo punto di vista, che sentimenti provochi lo spettacolo di una giovane vita massacrata in modo apparentemente gratuito è così ovvio che non sarebbe nemmeno il caso di parlarne. Comunque sia, la reazione emotiva è o dovrebbe essere strettamente personale.

Quel che accade, invece, è che da tempo lo stereotipo non è più solo il modello di ciò che il pubblico deve pensare del mondo, ma vuole essere il modello di come si deve reagire emotivamente agli accadimenti che i mass media mettono in scena.

Nei primi decenni del dopoguerra diversi fatti di cronaca avevano appassionato l’opinione pubblica, dalla “strage di via San Gregorio” di Rina Fort all’affare Montesi all’omicidio Fenaroli, o ancora, negli anni del “miracolo economico” il caso Bebawi, dal nome di due coniugi egiziani accusati entrambi – l’uno contro l’altra – dell’omicidio del giovane imprenditore egiziano Farouk Chourbagi e quindi entrambi inevitabilmente assolti per insufficienza di prove.

I quotidiani pubblicavano la trascrizione stenografica delle udienze dibattimentali e si formavano, sempre, le contrapposte fazioni dei colpevolisti e degli innocentisti che alimentavano animati dibattiti non solo sulla stampa ma anche nei salotti di casa. Una parte importante del palcoscenico la occupavano i “principi del Foro” del momento. C’erano però due significative differenze rispetto alla “partecipazione” del pubblico di oggi ai più agghiaccianti o impressionanti fatti di sangue.

La prima è che allora l’intensa e rumorosa partecipazione del pubblico si accompagnava alla fase per definizione pubblica del processo, il dibattimento; oggi, il giudizio dell’opinione pubblica, precede addirittura la fase istruttoria, una fase che per definizione dovrebbe essere protetta dal riserbo, sia per non intralciare le indagini sia per proteggere tutte le persone coinvolte a diverso titolo. La seconda è ancora più ovvia. Il ruolo dei mass media non è più quello di “coprire” (nel senso anglosassone del termine) il fatto di cronaca valorizzando anche i dettagli pruriginosi o raccapriccianti, lasciando però al pubblico la facoltà di formarsi un’opinione: quanto meno nella forma. No, i giornali e i teleschermi suggeriscono al pubblico ciò che si deve sentire al cospetto della notizia: le emozioni “giuste”.

Ma la forma è vitale per la convivenza civile (Natalino Irti, il grande giurista e filosofo troppo presto dimenticato, aveva intitolato uno dei suoi ultimi libri Il salvagente della forma). Negli ultimi decenni è stato viceversa un crescendo di produzione e somministrazione al pubblico di orribili mostri e angeliche vittime, e davanti al pericolo esistenziale rappresentato dal mostro la reazione deve essere immediata, altro che indagini coperte dal riserbo, altro che forme da rispettare: giustizia e verità subito!

Accade così che mentre il “reo confesso” (ma anche i rei confessi hanno diritto al processo e la comunità ha il dovere di processarli, secondo le proprie regole) non ha ancora incontrato un magistrato italiano, abbiamo già letto sul più diffuso quotidiano italiano due lunghe lettere, la prima della sorella della vittima e la seconda del padre del reo confesso. Con conseguente ulteriore dilagare di commenti a indirizzo pedagogico.

Nel frattempo, sull’onda dell’emozione collettiva, il ministro della Giustizia promette (o minaccia?) un opuscolo per “insegnare” (ai giovani, alle forze dell’ordine?) a cogliere i piccoli segnali che devono far temere un rischio di gesti violenti. Si sente parlare di tecniche pedagogiche per “insegnare” ai ragazzi a “gestire” le emozioni nell’ambito scolastico. Non mi permetto di entrare nel merito, e neanche nel merito delle più che intuibili motivazioni del ministro, ma resta il fatto che non è il momento migliore per varare nuovi provvedimenti, cioè nuove regole, in teoria fatte per durare, quello dell’esplosione della emotività collettiva.

La comunicazione, sia privata sia di massa, compresa quella governativa, ha sempre avuto un indiretto scopo manipolatorio: non scopriamo niente. Il punto è che oggi questa “missione” di indirizzo delle emozioni del pubblico i mass media la perseguono dichiaratamente, se non addirittura orgogliosamente, forse convinti di avere diritto, per questo ulteriore “servizio”, alla gratitudine del pubblico. Di nuovo, siamo al cospetto di un tradimento della forma, della regola che attribuisce al lavoro degli addetti all’informazione una sorta di distacco professionale rispetto ai fatti su cui riferiscono, che è poi ciò che garantisce (garantirebbe) la credibilità degli organi di informazione: regola tartufesca, certo, ma non perciò meno preziosa dal punto di vista della convivenza sociale, una convivenza che non è fatta solo di luci ma anche di ombre, com’è giusto che sia. Quanto al governo, non è scontato che questa educazione o rieducazione sentimentale dei pargoli debba rientrare tra i compiti della pubblica istruzione. Bisognerebbe discuterne.

Se vogliamo, l’aspetto più paradossale di questa occupazione manu militari della sfera emotiva di ciascun cittadino è che, nell’epoca in cui si sono create costose strutture pubbliche per la protezione della privacy, nemmeno le emozioni sono più un fatto privato ma assumono rilevanza pubblica e dimensione collettiva.

È lecito chiedersi che cosa rimarrà di privato nella vita dei cittadini dopo che anche le emozioni saranno state definitivamente “formattate”. Già oggi la distinzione tra pubblico e privato nel mondo occidentale è così opinabile, per esempio nella sfera economica, che la scusa addotta anni fa dall’amministrazione Trump per bandire le apparecchiature Huawei dai sistemi 5G occidentali (il legame della società col partito comunista cinese) suonò, con la mente all’affare Echelon, come una barzelletta. In Svizzera si arriva al paradosso che il governo, dovendo salvare in un weekend la seconda banca del paese ma essendo la parola “nazionalizzazione” ancora impronunciabile, il governo “ordini” alla Ubs di comprare Credit Suisse e gli procuri anche le necessarie risorse finanziarie (in questo caso, però, se non altro, il “salvagente della forma” ha permesso alla dirigenza politico-finanziaria elvetica di rimanere a galla, affermando fino alla fine, con impavido sprezzo del ridicolo, che si trattava di un’operazione conclusa nell’ambito del sistema economico privato).

Forse il paradosso numero uno di questa storia è che, cavalcata con particolare impegno dalla koinè progressista come l’occasione per regolare definitivamente i conti col “sistema patriarcale”, la posizione si è appiattita su quella storica dei populisti, che hanno in uggia gli intralci della procedura perché hanno a cuore principalmente l’interesse (umano ed economico) delle vittime. Benché, a dire il vero, sul dileggio del garantismo in ogni sua forma tra populisti e progressisti è una bella gara.

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