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Transizione Energetica

La transizione energetica senza la Cina costa (molto) di più

Secondo uno studio di Wood Mackenzie, il distacco dalla Cina per le tecnologie pulite renderà la transizione energetica mondiale più costosa del 20 per cento. Accrescere la dipendenza, però, potrebbe avere ripercussioni di tipo industriale. Numeri, dettagli e dubbi.

È cosa nota – Startmag se ne occupa spesso – che la Cina domina la manifattura di pressoché tutte le tecnologie necessarie alla transizione energetica, dai pannelli solari alle turbine eoliche alle batterie, senza contare la raffinazione dei minerali critici come il litio, la grafite e le terre rare.

IL DOMINIO CINESE SULLE FILIERE DELLA TRANSIZIONE ENERGETICA

Il dominio cinese è talmente ampio e radicato che i tentativi dell’Occidente di fare a meno di Pechino per questi dispositivi e materiali potrebbero rendere la transizione più difficile e più costosa, con tutto quello che ne conseguirebbe a livello climatico e politico: i piani per la riduzione delle emissioni potrebbero non riuscire a rispettare le tempistiche fissate, ad esempio; inoltre, una transizione percepita come troppo gravosa verrebbe contestata dalle opinioni pubbliche.

Pur volendo mettere da parte le materie prime e i componenti intermedi, e limitarsi quindi ai prodotti finiti, la Cina risulta comunque essere il primo paese produttore al mondo di batterie, pannelli fotovoltaici, veicoli elettrici e turbine eoliche, con percentuali anche di gran lunga superiori al 50 per cento del totale globale. Questa produzione massiccia ha permesso alle aziende cinesi di raggiungere le economie di scala e di abbattere i costi di manifattura, al punto che realizzare pannelli, turbine o batterie in Cina costa molto meno che in Europa, negli Stati Uniti e anche in India.

IL COSTO DEL DISTACCO

Il decoupling, cioè il distacco completo dalle tecnologie pulite costruite in Cina – una nazione da cui l’Unione europea, gli Stati Uniti, il Giappone e l’Australia non vorrebbero essere dipendenti -, renderebbe la transizione energetica globale più costosa di 6000 miliardi di dollari. Il calcolo è della società di consulenza Wood Mackenzie.

Questi 6000 miliardi di dollari si andrebbero a sommare ai 29.000 miliardi di spese in conto capitale che Wood Mackenzie stima essere necessari fino al 2050 per raggiungere la condizione di neutralità carbonica, ossia di azzeramento netto delle emissioni di gas serra. Ricapitolando: senza la Cina, il passaggio alle energie pulite costerà al mondo il 20 per cento in più. Come scrive Quartz, 6000 miliardi di dollari è una cifra equivalente alla somma dei prodotti interni lordi di Regno Unito e India.

UN SOVRAPPREZZO ACCETTABILE?

La domanda, a questo punto, è una sola: il 20 per cento è un sovrapprezzo accettabile per raggiungere gli obiettivi di riduzione della dipendenza dalla Cina? Né l’Europa né l’America vogliono il decoupling totale, comunque, ma un più modesto de-risking che passi per la diversificazione dei fornitori e per il potenziamento delle filiere interne. La transizione energetica occidentale non sarà insomma China-free – ammesso che sia possibile – bensì a ridotto contenuto cinese, e quindi probabilmente non costerà 6000 miliardi in più.

Un sovrapprezzo, comunque, ci sarà: come nota Quartz, diverse aziende occidentali – soprattutto compagnie minerarie canadesi e australiane – parlano apertamente della necessità, per i clienti, di pagare prezzi più alti per garantirsi forniture di materie prime slegate alla Cina e dunque meno soggette a rischi geopolitici.

Inoltre, se è vero che fare a meno della Cina renderà la transizione energetica più costosa, è anche vero che l’affidamento completo a questo paese comporta comunque un costo, ossia la perdita di capacità industriale e la disoccupazione. Il settore europeo della componentistica solare, per esempio, è in crisi perché non riesce a sostenere la concorrenza con le importazioni di pannelli cinesi, molto più economici. Nelle ultime settimane ben quattro fabbriche europee di dispositivi fotovoltaici hanno chiuso o hanno annunciato l’intenzione di farlo, incluso il grande stabilimento a Freiberg, in Germania, di Meyer Burger.

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