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Trump

Ecco chi teme (e perché) negli Usa i dazi di Trump su acciaio e alluminio

Il commento di Gianfranco Polillo su portata ed effetti dei dazi annunciati dagli Stati Uniti di Trump Ancora un mese, poi quel verdetto sui dazi che potrebbe dar luogo ad una situazione tutt’altro che semplice. Donald Trump non se l’è sentita di rispettare la data più volte indicata per applicare all’Europa i super dazi (25…

Ancora un mese, poi quel verdetto sui dazi che potrebbe dar luogo ad una situazione tutt’altro che semplice. Donald Trump non se l’è sentita di rispettare la data più volte indicata per applicare all’Europa i super dazi (25 per cento) sull’acciaio e (10 per cento) sull’alluminio: prodotti in Europa. Giochi, al momento sospesi, mentre la Commissione europea replica a brutto muso: non tratteremo sotto pressione. Termine diplomatico per non dire ricatto. Il rinvio è soprattutto il frutto delle divisioni all’interno dell’establishment americano. Il Presidente deve in qualche modo onorare le promesse elettorali a favore dell’America profonda. Ma i conti complessivi dell’eventuale operazione non sembrano tornare.

Applicare quei dazi su prodotti così strategici, significa addossare un extra costo ai consumatori americani, che saranno costretti a pagare un prezzo maggiore per tutti i prodotti finiti che utilizzano quelle materie prime: dalle automobili all’edilizia, per non parlare delle infrastrutture. La conseguenza immediata sarà una crescita del tasso di inflazione interno già superiore a quello europeo. Solo il primo passo di una lunga catena. I maggiori costi della produzione interna accresceranno la competizione estera su una serie di altri prodotti finiti. Cosa farà allo Trump? Imporrà altri dazi sulle altre produzioni in una spirale infinita? Può essere l’inizio di una lunga discesa verso il precipizio.

Ma gli Stati Uniti non possono permettersi il lusso di una maggiore inflazione anche per un secondo motivo. Sono al limite. La Fed è già stata costretta ad aumentare i tassi di interessi a causa di una congiuntura surriscaldata. Ne sono derivate difficoltà per il finanziamento delle imprese che operano soprattutto per il mercato interno. Coloro che esportano possono, invece, ammortizzare i costi grazie al deprezzamento del dollaro nei confronti delle altre monete. Nello stesso tempo diventa più costoso finanziare l’ingente debito pubblico. Il rendimento dei Treasury è già pari al 3 per cento, con effetti negativi sulla stessa Borsa. Mentre resta l’incognita del finanziamento della grande riforma fiscale, che riduce notevolmente le entrate federali.

Se queste sono le preoccupazioni americane, in Europa l’attesa è ancora maggiore. L’eventuale avvio di una guerra commerciale avrebbe effetti ancora peggiori. L’Eurozona vive, infatti, soprattutto di esportazioni. Se venisse meno il mercato americano, la concorrenza cinese, una volta chiuse quelle frontiere, diverrebbe ancora più aggressiva. Riuscendo, grazie all’appoggio del Governo centrale, ad impostare vere e proprie operazioni di dumping. A causa di queste caratteristiche, con un saldo attivo delle partite correnti pari ad oltre 3 punti di Pil, l’Eurozona sta già pagando lo scotto di un tasso di cambio sfavorevole proprio nei confronti del dollaro. Se si riducesse il flusso delle esportazioni le conseguenze valutarie sarebbero immediate. E quel che Donald Trump vorrebbe recuperare grazie ai dazi, forse lo perderebbe a causa di una rivalutazione della propria moneta. Quindi un gioco che, alla fine, rischia di essere a somma negativa.

L’Europa, tuttavia, un suo problema specifico ce l’ha. E sarebbe da miopi far finta di niente. Il suo attivo valutario, secondo i dati della stessa Commissione europea, è valutato, per il 2018, in 347,4 miliardi di euro. La parte del leone spetta ai tedeschi che, da soli, totalizzano circa il 73 per cento dell’attivo complessivo. Seguono Olanda (19 per cento), Italia (13 per cento) e Spagna (7 per cento). La Francia, al contrario, presenta un deficit pari a 64,9 miliardi di euro, che riequilibra per il 18 per cento circa, l’eccesso di esportazioni dei Paesi in surplus. Che si tratti di una situazione problematica, considerati gli squilibri sociali del Vecchio continente, è più che evidente. Non si dimentichi che l’eccesso di surplus si traduce matematicamente in una sottrazione di risorse disponibili per i programmi di sviluppo all’interno di ciascun Paese. E che gli americani siano più che infastiditi dallo status quo è altrettanto comprensibile.

L’eccesso di mercantilismo, quando si traduce in una riduzione del ritmo dello sviluppo potenziale, è una pratica che si ritorce sia contro il Paese che lo pratica sia nei confronti del proprio neighbor. Tanto più se i propri vicini sono anche alleati. Del resto il travaglio dell’Europa, alla ricerca di una propria identità, è più che evidente. Logica allora vorrebbe che Donald Trump divenisse l’alleato di chi vuole introdurre quelle riforme – a partire da una revisione del fiscal compact per i Paesi in surplus – che sono indispensabili per scrivere quella pagina nuova che è l’unica vera barriera ad un trionfante populismo.

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