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Aramco, tutte le tensioni in Arabia Saudita su Ipo, petrolio e corte di Mbs

L’attacco contro gli impianti di Aramco scombussolano i piani di Mohammad bin Salman (Mbs) sull'Ipo e provocano tensioni nei prezzi del petrolio. Fatti, commenti e scenari nell'approfondimento di Marco Orioles

 

PRIMO PIANO: LA VIA CRUCIS DI ARAMCO VERSO L’IPO

È stata una settimana ad alta tensione per l’Arabia Saudita. Si è aperta domenica scorsa con un improvviso cambio della guardia al Ministero dell’Energia, dove è approdato – per la prima volta nella storia del Regno – un figlio del sovrano, il principe Abdulaziz bin Salman. E si è conclusa sabato con il clamoroso attacco, rivendicato dai ribelli yemeniti Houthi, agli impianti petroliferi di Aramco di Abqaiq e Khurais che, come ha dichiarato il nuovo ministro, hanno provocato “la temporanea sospensione della produzione” di ben 5,7 milioni di barili di petrolio, pari al 50% della produzione totale saudita e –  aggiungono Bloomberg e Politico – al 5% del totale della produzione mondiale:

 

Entrambi gli avvenimenti si collocano sullo sfondo di un tornante fondamentale per l’Arabia Saudita: l’IPO con cui sarà messo sul mercato, in una data ancora non annunciata ma che si sta avvicinando, il 5% delle azioni di Aramco. Si tratta di un’operazione fortemente voluta dall’uomo forte di Riad, quel principe Mohammad bin Salman (Mbs) che considera l’IPO il perno di una strategia complessiva di rilancio e diversificazione dell’economia saudita, denominata Vision 2030, per la quale ha bisogno di incassare da quell’operazione la somma più alta possibile, necessaria per mettere in sesto i disastrati bilanci del regno.

Ma tra le ambizioni di Mbs e la realtà c’è di mezzo un dato che è costato il posto al suo ministro dell’Energia dopo tre anni di onorato servizio: la quotazione del petrolio ben al di sotto delle aspettative.

Il cambio della guardia al ministero si spiega sopratutto così, ance se non arriva come un fulmine al ciel sereno: pochi giorni della destituzione, Falih era stato rimosso dall’incarico di presidente del board di Aramco, di cui era stato anche chief executive. In quella poltrona ora siede Yasir al-Rumayyan, che oltre a presiedere il fondo sovrano saudita è anche uno stretto consigliere di Mbs. Ma che la sorte di Falih fosse segnata lo si era capito anche prima, quando dal suo portafoglio erano state tolte le deleghe per le miniere e l’industria.

Secondo Forbes, che alla transizione al ministero saudita ha dedicato un lungo pezzo, le ragioni dell’uscita di scena di Falih sono tuttavia poco chiare.

Forbes ricorda che Abdulaziz è il terzo ministro dell’Energia ad entrare in carica nell’arco di poco più di tre anni. Prima di lui, e di Falih, c’era stato il lungo regno – 21 anni – di Al-Naimi, anch’egli “dimissionato” a sorpresa nel maggio 2016.

Naimi fu silurato per aver mantenuto ostinatamente al massimo livello le estrazioni dai pozzi sauditi, finendo per essere scaricato ingloriosamente quando la quotazione del petrolio aveva toccato i 30 dollari al barile.

Capita l’antifona, il suo successore partì all’attacco, diventando l’architetto del patto tra i Paesi OPEC e alcuni produttori non OPEC, come la Russia, messo in piedi tre anni or sono con lo scopo di tagliare in modo concertato la produzione e far risalire le quotazioni del greggio.

Nel dialogo perseguito con Mosca, Falih fu avvantaggiato dagli ottimi rapporti con la sua controparte russa Alexander Novak, che invece non poteva vantare Naimi. Grazie al sostegno di Putin, Falih potè così incassare il risultato sperato, imbarcando, insieme ai 14 membri dell’OPEC, dieci produttori non OPEC, che vararono un taglio congiunto della produzione di 1,2 milioni di barili al giorno, con l’accordo di tenerlo in vita fino al marzo 2020.

Le speranze riposte da Riad in questo inedito patto furono però presto deluse: il prezzo del petrolio non ha sperimentato il balzo atteso, con il Brent che ha raggiunto quota 61 alla vigilia delle dimissioni di Falih. Un aumento insufficiente, soprattutto se raffrontato alla parallela diminuzione della produzione di greggio del regno che, secondo i dati  dell’ultima S&P Global Platts survey, da 10,2 milioni di barili al giorno è scesa nell’agosto scorso a 9,77 milioni di barili.

In queste circostanze, sottolinea Forbes, ad essere a rischio è proprio l’IPO di Aramco e, in particolare, il desiderio di Mbs di arrivare all’ora X con una valutazione del colosso petrolifero di Stato pari a più di due trilioni di dollari. Per coronare questo sogno, il prezzo dovrebbe salire ad almeno 80 dollari al barile, e a detta di Forbes niente suggerisce che quest’obiettivo sia alla portata, nemmeno l’insediamento al Ministero dell’Energia di un veterano che è pienamente a suo agio nei circoli OPEC.

Abdulaziz viene infatti da una intera carriera nel settore. Dopo la laurea alla King Fahd University of Petroleum and Minerals, è entrato giovanissimo al ministero dell’Energia nelle vesti di consigliere, e dieci anni dopo è stato nominato vice ministro del petrolio, carica che ha ricoperto per quasi un decennio. Successivamente, ha prestato servizio come assistente ministro al petrolio fino a quando, nel 2017, è stato nominato ministro di Stato per gli affari energetici.

Abdulaziz si trova ora alla testa di un’azienda che ha perso nella prima parte di quest’anno il 12% dei proventi a causa dell’attuale prezzo del petrolio, pur restando in testa alla classifica delle società più profittevoli del pianeta, con un fatturato l’anno scorso pari a 111 miliardi di dollari, quasi il doppio di Apple.

Ma la strada di Abdulaziz comincia in salita, come ha testimoniato lo spettacolare attacco, avvenuto all’alba di sabato, agli impianti Aramco di Abqaiq, dove si trova la più grande raffineria del regno, e al pozzo di Khurais, che è il secondo più grande del Paese.  La notizia degli incendi divampati nei due siti ha ovviamente fatto subito il giro del mondo, insieme a varie immagini dei siti colpiti avvolti dalle fiamme:

https://twitter.com/qanatahrar/status/1172775191694512128?s=21

 

Poche ore dopo l’attacco, un portavoce dei ribelli Houthi dello Yemen, Yahia Sarie, si è presentato davanti alle telecamere dell’emittente satellitare del gruppo, al-Masirah, per rivendicare l’azione, spiegando che è stata condotta “con 10 droni”. Un attacco a sorpresa dunque, partito da un migliaio di chilometri di distanza, ma che gli americani in queste ore stanno mettendo in discussione, avanzando l’ipotesi che si sia trattato di missili da crociera partiti non dallo Yemen ma da un luogo più vicino come l’Iraq.

Ovvia, da parte di Washington, l’attribuzione della responsabilità all’Iran, alleato degli Houthi ma sopratutto nemico giurato dei sauditi. Nei tweet partiti nella giornata di domenica, il presidente Usa Trump e il Segretario di Stato Pompeo hanno puntato il dito su Teheran, e nel cinguettio del tycoon c’è anche un accenno niente affatto larvato a possibili ritorsioni.

https://twitter.com/realdonaldtrump/status/1173368423381962752?s=21

La natura degli obiettivi colpiti sabato sa ben evidenzia la gravità dei fatti. Abqaiq si trova a 60 km a sudovest del quartier generale di Aramco a Dhahran e ospita la più grande raffineria del mondo, dove si lavora il greggio estratto dal colossale campo di Ghawar che viene poi trasferito ai terminal di Ras Tanura e Juaymah. Qui, per citare i dati di luglio, si producono quotidianamente ben 7 dei 9,65 barili di petrolio prodotti dall’Arabia Saudita. Ed è qui che vive buona parte del personale occidentale di Aramco.

Si tratta, dunque, di un obiettivo quanto mai appetibile per chiunque voglia provocare dei mal di testa a Riad. Tutti, per inciso, ricordano come un fallito attentato qaedista nel 2006 proprio qui provocò un repentino aumento del prezzo del petrolio di due dollari.

Il campo di Khurais si trova invece a 160 km dalla capitale, è operativo da dieci anni ed è il secondo più grande del paese dopo Ghawar, con riserve accertate di venti miliardi di barili. Qui ogni giorno si producono 1,5 milioni di barili di petrolio.

Per tutte queste ragioni, gli analisti finanziari ieri erano in fibrillazione per quanto sarebbe potuto succedere oggi a mercati aperti. Gli esperti sentiti da Reuters scommettevano su un immediato aumento di 5-10 dollari, con la prospettiva di un balzo a 100 dollari qualora l’Arabia Saudita non riuscisse a ripristinare tempestivamente i livelli produttivi precedenti.

E se per Ayham Kamel di Eurasia Group l’aumento potrebbe contenersi a 2 o 3 dollari, bisogna tenere conto di un secondo ordine di considerazioni: vista la “portata” dell’attacco messo a segno dagli Houthi, osserva Khamel, è quanto mai probabile che i mercati spingeranno per includere nel prezzo  anche un “premio al rischio geopolitico”. Ma è l’ultima osservazione di Kamel quella che preoccupa di più la corte dei Saud: “gli attacchi”, sottolinea l’analista, “potrebbero complicare i piani dell’IPO di Aramco a causa degli accresciuti rischi alla sicurezza e al potenziale impatto sulla sua valutazione”.

È dello stesso avviso anche il Wall Street Journal, che in un articolo di ieri spiegava che “l’attacco potrebbe portare ad un premio sui prezzi del petrolio che è stato assente per lungo tempo a causa di una certa compiacenza. Anzi, i trader potrebbero ora essere costretti a prendere in considerazione il nuovo rischio (derivante dalla minaccia) di far mancare improvvisamente nel mercato non centinaia di migliaia ma milioni di barili”..

L’attacco di sabato, insomma, sembra guastare i piani di Mbs e di Aramco che, come osserva Bloomberg, stavano accelerando. Giusto la settimana scorsa, ricorda Bloomberg, decine di banchieri di società come Citigroup e JPMorgan Chase si sono incontrati per studiare le prossime mosse. Ha buon gioco allora Ayham Kamel di Eurasia a dire che tutto quel che è successo “potrebbe complicare i piani dell’IPO”. E rovinare l’umore del nuovo ministro saudita dell’Energia.

(estratto dal Taccuino estero di Orioles per Policy Maker)

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