Dopo l’orrendo e barbaro attacco di Hamas a Israele, che ha fatto strage di civili sorpresi nella quotidianità delle nostre società democratiche, sorgono diversi interrogativi sul loro modus operandi, sulla raccolta di informazioni, sulla preparazione e sul fallimento dell’intelligence del potente apparato di sicurezza israeliano che coinvolge il governo del premier Netanyahu, Mossad, Shin Bet e IDF. Sebbene il brutale attacco terroristico abbia avuto luogo in Israele, le sue ripercussioni sono avvertite a livello globale: innanzi tutto nella divisa comunità musulmana, che si è immediatamente coalizzata contro il nemico comune Israele, nonostante sia in perenne guerra interna tra le diverse dottrine religiose che le caratterizzano. I sunniti da un lato, e le diverse comunità sciite dall’altro, oltre ad un terzo gruppo, gli ibaditi.
Ma i contraccolpi sono forti anche in Occidente: negli Stati Uniti, in Europa ed in Italia, sotto forma del massiccio sostegno mostrato da alcuni settori della società all’attacco terroristico di Hamas, strumentalizzando la causa palestinese. L’approfondimento delle dinamiche causali di questa reazione può essere oggetto di una dettagliata analisi che ne individui le radici storiche.
Per il momento, però, la situazione ci spinge a porci una domanda: Quanto siamo sicuri, in Europa ed in Italia?
Immaginiamo, se una bella mattina ci ritrovassimo assediati da centinaia di terroristi che ci attaccano volando sul territorio italiano con alianti e paracadute com’è accaduto in Israele? Oppure, se un commando di terroristi attaccasse sparando all’impazzata uccidendo e prendendo in ostaggio bambini in una scuola, persone in un centro commerciale o dipendenti di un’azienda mentre lavorano, come nella strage di Bèslan, il 1° settembre del 2004, quando la scuola della città dell’Ossezia del Nord fu assaltata da un gruppo di oltre 30 terroristi, in prevalenza ceceni, che occuparono tutto l’edificio e sequestrarono oltre mille tra bambini, insegnanti e genitori che si trovavano nei locali dell’istituto per l’inaugurazione dell’anno scolastico. Oppure come nell’attacco alla sede di Charlie Hebdo il 7 gennaio 2015 a Parigi? In quell’attentato, che fu rivendicato dalla branca yemenita di Al-Qāʿida (o Ansar al-Sharia), furono assassinate dodici persone ed altre undici sono rimaste ferite.
In un altro scenario, cosa succederebbe se un gruppo di 30-40 kamikaze si facesse esplodere in aree affollate contemporaneamente in più luoghi, o se gruppi terroristici decidessero di lanciare bombe da droni durante un evento sportivo o un concerto? E ancora, per inquadrare la situazione odierna in Italia, cosa succederebbe se uno o più attentatori iniziassero a sparare durante le manifestazioni “pro-Palestina”, dove si urlano cori contro Israele e contro «Netanyahu terrorista», trasformandole in violente carneficine, disordini civili e rivolte in città come Milano e Roma?
In tutti questi ipotetici scenari, i foreign fighters, addestrati e infiltrati nelle nostre comunità agirebbero come principali coordinatori e pianificatori. In queste atroci devastazioni, le cellule dormienti fornirebbero informazioni tempestive, armi e possibili vie di fuga ai terroristi. Dopo un primo attacco terroristico letale seguito da diverse forme di panico generale, quando il governo avrà reagito, centinaia di civili sarebbero già morti. Infine, quando le forze di sicurezza statali sarebbero state dispiegate ed adottato pesanti contromisure, tra cui l’uccisione dei terroristi, la guerra di propaganda globale anti-Occidente ben coordinata, eserciterebbe una pressione immensa sulle nostre istituzioni. Avversari e nemici come Russia, Cina, Iran e, in questo caso, i Paesi musulmani e persino le ONG, i politici, i media, i giornalisti e gli intellettuali della sinistra antagonista farebbero di tutto per mettere all’angolo e delegittimare il governo (di destra ed apertamente schierato con Ucraina e Israele) in carica, soprattutto a livello internazionale.
Quanto siamo vicini, come società e come Paese, a uno scenario del genere? Qual’è la probabilità che attacchi terroristici su larga scala, combinati con violente proteste e rivolte sociali, si verifichino in diverse parti dell’Europa e del nostro Paese? E, infine, quanto siamo preparati, come società e Stato, ad affrontare una simile crisi?
Siamo ovviamente nell’ordine di ipotesi di scenari, ma nel condurre un’analisi di una minaccia reale come questa, è indispensabile considerare almeno i seguenti tre fattori:
La mentalità, l’intento e le capacità degli attori
Partendo dalla mentalità e dall’intento, ritengo che attualmente l’Italia stia vivendo un’intensa guerra psicologica e di radicalizzazione anti-Nato, anti-americana ed anti-Israele, in particolare attraverso alcuni media nazionali, i social media come TikTok e Telegram, ed alcuni centri di influenza politici, dove sicuramente si sta pesantemente infiltrando anche quella jihadista, camuffata in sostegno al popolo palestinese ed alimentata dalla rete di disinformazione e propaganda russa. La guerra di aggressione russa contro l’Ucraina aveva fatto passare in secondo piano la minaccia jihadista, ma diversi rapporti di intelligence hanno evidenziato livelli allarmanti di radicalizzazione in molti Paesi occidentali. Sebbene il fenomeno non sia nuovo, ultimamente, la radicalizzazione online della jihad globale ha acquisito proporzioni allarmanti.
Per quanto riguarda la questione israelo-palestinese, dopo il criminale attacco di Hamas, il governo Meloni ha preso una chiara e determinata posizione politica, avvicinando l’Italia molto di più a Israele, liberandosi delle inibizioni del passato. Di conseguenza, il sostegno dell’Italia alla Palestina, in questo particolare contesto geopolitico, rappresenta una mera formalità priva di spessore strategico. La formale richiesta di massima salvaguardia dei civili palestinesi, ostaggio di Hamas a Gaza, avanzata da tutti gli alleati di Israele, è già prevista dalla Convenzione IV di Ginevra relativa alla protezione dei civili in tempo di guerra (1949), che le democrazie occidentali, come lo è quella dello Stato di Israele, rispettano. A differenza di Hamas e dei suoi sponsor, che non considerano alcun diritto umano e civile nemmeno in tempo di pace.
Tuttavia, alcuni esponenti delle destre e delle sinistre radicali, estremisti no-vax e no-Nato, che avevano perso influenza e visibilità nella società, hanno festeggiato la vittoria dei Talebani dopo il ritiro della coalizione occidentale dall’Afghanistan, e ritrovato vigore dando il loro sostegno alla Russia ed ora, alla violenza contro Israele, giustificando gli attacchi terroristici di Hamas come sostegno alla causa palestinese.
La riconquista dell’Afganistan dei Talebani ed il successo dell’attacco di Hamas hanno fornito ai gruppi terroristici ed ai loro sponsor un modello da replicare.
In particolare, la “vittoria” dei Talebani contro l’Occidente, la guerra all’allargamento della Nato del presidente Putin e il successo dell’attacco di Hamas contro Israele, rappresentano per gli estremisti ed i gruppi della jihad globale, un modello da imitare e replicare.
Se Hamas, con l’appoggio di uno Stato NON dotato di armi nucleari (Iran), ha potuto infliggere un danno così massiccio a uno Stato potente come Israele, sostenuto da tutta la potenza americana, allora immaginate cosa potrebbe accadere in Europa, ed in particolare all’Italia, se la global jihad decidesse di compiere un attacco così massiccio contro il nostro Paese e conquistare Roma, la capitale del Cristianesimo. Progetto strategico di unificazione dell’Islam sunnita, che oltre alla cancellazione dello Stato di Israele ed alla eliminazione di tutti gli ebrei, con la jihad globale persegue anche la sconfitta del Cristianesimo e la conquista del Vaticano.
Le capacità e i preparativi
Occorre analizzare anche le capacità dei gruppi terroristici, che è in grado di pianificare ed organizzare operazioni complesse come quella del 7 ottobre scorso, progettato sin dal 2016 ed in grado di sorprendere tutte le Agenzie di intelligence occidentali con una operazione di deception magistrale.
Negli ultimi tre decenni, l’Italia ha creato un’infrastruttura anti-terrorismo islamico molto raffinata e sofisticata. Tuttavia, la complessa e stratificata infrastruttura del terrore sostenuta dall’Iran, dal Qatar e da altri State-actor come gli hacker russi che hanno contribuito ad accecare i sistemi di monitoraggio ed allerta israeliani prima e durante l’attacco di Hamas del 7 ottobre, comprende diversi gruppi terroristici, un sistema di finanziamento del terrore ben collegato ed occultato, organizzazioni islamiche estremiste che si impegnano in un’intensa radicalizzazione religiosa in nome della carità, dell’assistenza e del lavoro religioso, una solida rete di operatori di terra, guerrieri dei media, guerrieri della propaganda e attivisti della società civile internazionale. Inoltre, comprende anche una rete radicata di spie e cellule dormienti in varie parti d’Europa, dove possono svolgere un ruolo fondamentale nel fornire supporto logistico e ausiliario per orchestrare attacchi terroristici, anche su larga scala.
Secondo recenti rapporti, la global jihad sta ulteriormente sviluppando le proprie capacità di guerra asimmetrica, vi sono ampi esempi di organizzazioni religiose estremiste come la Tamil Nadu Tauhid Jamaat, che mobilitano i musulmani locali su questioni jihadiste globali, diffondono la narrativa del vittimismo e si impegnano nella radicalizzazione dei musulmani in diverse zone del mondo, con gruppi di insorti locali come ULFA, Naxaliti e gruppi terroristici islamici del Bangladesh come HuJI.
Con i fondi ricevuti dagli Stati, che apertamente sponsorizzano i Fratelli musulmani ed organizzazioni come Hamas e che ne ospitano i capi, sviluppano traffici di ogni genere, acquistano armi, tecnologie e droni: è ormai assodato che negli ultimi anni i terroristi hanno utilizzato principalmente i droni per contrabbandare armi e droga in diversi Stati dell’Unione Europea. In particolare, diverse aziende di copertura hanno acquistato massicciamente droni dalla Turchia, una superpotenza del settore. L’asse Turchia-Pakistan-Azerbaigian ha già testato l’efficacia dei loro droni contro le forze armate armene, distruggendo i loro carri armati con estrema facilità. Inoltre, nel campo dell’organizzazione di proteste e disordini civili a livello nazionale e della guerra di propaganda internazionale anti-Israele, le capacità sono state più che evidenti nella gestione di centinaia di manifestazioni in stile “Harvard”, campagne sui social media e rivolte in varie città europee in risposta a qualsiasi presunta blasfemia e alla guerra di informazione internazionale contro i Paesi occidentali.
Infine, per quanto riguarda l’approvvigionamento di armi ed esplosivi, va detto che negli ultimi tempi i gruppi terroristici hanno contrabbandato centinaia di armi avanzate e stanno esplorando nuovi settori come le armi chimiche, le armi biologiche, i razzi e le bombe azionate via Wifi. Nel frattempo, si sono verificati diversi colpi di stato ed importanti cambiamenti demografici in diversi Stati africani, ed una enorme crisi economica in Sud America che provoca milioni di immigrati a livello globale, che arrivano negli Usa, in Europa ed i Italia. Immigrati che vengono dirottati in diverse regioni, come se fossero turisti, vengono fatti insediare e colonizzare diversi quartieri delle città italiane, creando comunità di immigrati intorno a centri urbani non dotati di adeguate strutture di accoglienza che, come hanno dimostrato le rivolte nelle 1.500 banlieue parigine (Banlieue significa “luoghi messi al bando” ovvero separati dalla metropoli), potrebbero aumentare la nostra vulnerabilità in situazioni di crisi. Non vi è alcun dubbio che le attività di cui sopra rappresentino hub di attività di radicalizzazione svolte sotto la guida di organizzazioni terroriste come Hamas, diventato brand di riferimento globale volto a raggiungere il dominio islamico dell’Europa e a minacciare la sicurezza internazionale.
Quanto siamo preparati come Stato e società?
Una stima corretta della forza e della resistenza della nostra società contro l’estremismo islamico viene dalle osservazioni di base delle numerose manifestazioni, proteste e dichiarazioni politiche contro Israele, che hanno avuto luogo in vari Paesi occidentali. Le lobby islamiste ed il network mediatico jihadista hanno portato avanti una propaganda internazionale ben pianificata, in cui l’Occidente sta affrontando pesanti contraccolpi da parte di nazioni a maggioranza musulmana come Iran, Turchia, Kuwait, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Pakistan, Afghanistan, Bahrein, Indonesia, Oman, Iraq, Tunisia ecc. Idealmente, in reazione a questa pesante guerra psicologica, tutta la politica italiana avrebbe dovuto condannare la strage di ebrei e sostenere lo Stato di Israele dopo il medievale e barbaro massacro ed il rapimento di migliaia di civili, tra cui centinaia di bambini. Tuttavia, una buona parte dei politici italiani, in particolare i partiti e le organizzazioni di sinistra anti-Nato, alcuni leader religiosi, intellettuali e organizzazioni ambientaliste ed altri soggetti “esperti” a vario titolo, non hanno pronunciato una sola parola di sostegno per il massacro trasmesso in diretta video di oltre un migliaio di ebrei. L’Italia, un Paese con 60 milioni di abitanti, una delle maggiori economie mondiali, si ritrova avvolta in una guerra di propaganda falsa e inventata da un Paese sponsor del terrorismo come l’Iran e da regimi come quello del Qatar, che diventa mediatore per il rilascio degli ostaggi, mentre continua a finanziare gruppi terroristici come i Fratelli Musulmani e Hamas.
Questo esempio la dice lunga sulla nostra debolezza come società e su quanto siano ridotti il nostro impegno e la nostra determinazione contro l’estremismo e il terrorismo. La maggior parte dei cittadini italiani non ha la minima idea di quanto sia grave la minaccia.
Il salto di qualità di Hamas, se così lo si può definire, sta nel fatto che l’attacco del 7 ottobre, da attentato terroristico al singolo o a pochi individui, è stato un vero e proprio piano di attacco paramilitare in stile Wagner, progettato sin dal 2016 come una minaccia collettiva capace di occupare il territorio, uccidere migliaia di civili e mettere in discussione la sopravvivenza di uno Stato, e non uno Stato qualunque, ma una potenza militare come Israele.
Di fronte a queste minacce l’UE cosa fa? Per precostituire una risposta diplomatica ed una difesa adeguate occorrerebbe che l’Unione Europea avesse la possibilità di disporre delle opzioni alla quali ricorrono gli Usa. Opzioni che includono, soft – hard e smart power – cioè azioni diplomatiche, sanzioni economiche e azioni militari di deterrenza e attacco. Invece, né a titolo individuale, né a titolo collettivo i Paesi dell’Unione Europea sono in grado di fare ricorso in modo coerente a questo tipo di azioni, in quanto, per un motivo o per un altro, sono portati ad assumere iniziative concilianti che, spesso, a causa dei lori rispettivi interessi nazionali, collidono tra loro.
Non avendo una politica estera comune, l’UE non si può dotare di un sistema di Difesa europeo. Tutti gli Stati membri UE sono contrari alle “combat operations” e disponibili solo a finanziare inutili e costose “peacekeeping operation” e, a volte, sanzioni economiche, per lo più depotenziate dalla paura di ritorsioni, da parte dei Paesi contro i quali le medesime sanzioni dovrebbero essere applicate. Non restano che le azioni diplomatiche, ma nel caso di organizzazioni jihadiste non si sa verso chi condurle, considerato che persino gli Stati che le utilizzano come proxy, sono privi di legittimazione internazionale.
Il ruolo delle Nazioni Unite e della Nato
Per quanti si appellano all’ONU, forse è necessario ricordare ai leader di Francia, Spagna, Portogallo che insieme a Russia, Cina e Brasile hanno votato la risoluzione – intitolata «Azioni illegali di Israele nella Gerusalemme Est occupata e nei Territori palestinesi occupati», ma anche a Italia, Germania, Regno Unito, Olanda, Svezia, Polonia, Giappone ed altri paesi UE che si sono soltanto astenuti alla mozione (non vincolante perché approvata dall’Assemblea e non dal Consiglio di Sicurezza, presentata da 40 Stati, quasi tutti mediorientali e africani, con in più Russia, Venezuela, Corea del Nord, Indonesia, Bolivia e pochi altri e nessun Paese Ue), che mira ad un cessate il fuoco unilaterale di Israele per una garantire l’ingresso degli aiuti e a impedire lo sfollamento forzato. Un periodo buio per l’Onu, che continua a perdere rilevanza e legittimità, dopo l’approvazione di una risoluzione che non fa alcun riferimento ad “Hamas” e nemmeno agli “ostaggi”. Un’altra enorme perdita di credibilità, dopo le affermazioni del suo segretario generale Guterres, che ha addebitato la causa della carneficina compiuta da Hamas a “56 anni di occupazione e di violazione dei diritti umanitari” da parte israeliana.
Accade così che l’Italia debba sentirsi difesa solo dall’“ombrello protettivo” della Nato, dove però irrompe una sempre più subdola Turchia, diventata potenza politica e militare dell’Alleanza proprio grazie agli enormi finanziamenti occidentali. Le forze armate turche sono il secondo più grande esercito della Nato dopo gli Stati Uniti e l’ottavo esercito del mondo. La Turchia, che si posiziona 17esima al mondo nella classifica delle spese militari, con un budget di circa 19 miliardi di dollari ogni anno per la sua difesa, è palesemente coinvolta nella destabilizzazione dell’area mediorientale e mediterranea, con intenti non sempre trasparenti e coerenti con i principi dell’Alleanza, come nel caso di questa guerra tra Hamas ed Israele.
Ma nonostante tutto, l’unico baluardo di difesa dei Paesi europei contro l’aggressore russo, per una efficace azione di deterrenza nei confronti di Iran e Cina, rimane la Nato, che senza il sostegno degli Stati Uniti, asse portante dell’Alleanza Atlantica, sarebbero ancora più esposti alle minacce dei sopracitati regimi e ad un maggiore rischio attentati di Hamas e della jihad globale.
Infine, per quanto riguarda l’Italia, se vuole assumere una leadership strategica regionale nel Mediterraneo, capace di esercitare influenza non soltanto economica, deve fare affidamento sulla Nato come se non avesse alcuna capacità militare, ma anche sviluppare la propria capacità militare come se non facesse parte della Nato (come Francia, Gran Bretagna, Turchia, e a breve Germania).