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Hamas

Hamas, la guerra e lo scenario geo-economico su petrolio e gas

La guerra tra Hamas e Israele non sembra, per il momento, aver stravolto il mercato del petrolio. Potrebbe però avere ripercussioni più importanti sul gas: ecco perché

La guerra tra Hamas e Israele nella Striscia di Gaza non ha avuto, almeno finora, un impatto sulle forniture di petrolio, ma ha causato un aumento dei prezzi: lunedì, due giorni dopo che l’organizzazione palestinese aveva lanciato un attacco contro il territorio israeliano, i prezzi al barile dei due principali riferimenti internazionali, il Brent e il WTI, sono cresciuti rispettivamente del 4,2 per cento (a 88,1 dollari) e del 4,3 per cento (a 86,3 dollari).

L’IMPATTO DELLA GUERRA HAMAS-ISRAELE SUL PETROLIO

Di conseguenze dirette sull’offerta di petrolio, invece, non ce ne sono state perché né Israele né la Palestina sono produttori rilevanti: l’output dei territori palestinesi è pressoché nullo, e anche quello israeliano è minimo.

Le cose potrebbero cambiare qualora il conflitto si allargasse al resto del Medioriente, una regione che – riporta Axios – vale un terzo dell’offerta mondiale di greggio. Hamas, in particolare, è sostenuta dall’Iran, il settimo maggiore produttore petrolifero. Il regime iraniano ha negato ogni coinvolgimento, però ha celebrato l’attacco palestinese come un atto di “auto-difesa”.

PERCHÉ NON SARÀ UN NUOVO 1973

C’è chi teme che la guerra nella Striscia di Gaza possa replicare lo scenario del 1973, quando l’OPEC (l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, di cui l’Iran fa parte) provocò una crisi energetica attraverso un embargo petrolifero contro i governi alleati di Israele, che era stato attaccato dagli eserciti di Egitto e Siria nella guerra del Kippur.

Una situazione del genere, tuttavia, oggi appare improbabile: il mondo è cambiato parecchio dal 1973, le relazioni tra Israele e i suoi vicini non sono le stesse di allora, la questione palestinese ha perso importanza in Medioriente e i paesi arabi non paiono interessati a danneggiare Israele, a partire dall’Arabia Saudita. Tra Tel Aviv e Riad, anzi, sono in corso delle trattative – mediate dagli Stati Uniti – per la normalizzazione dei rapporti bilaterali, sulla scia degli accordi già raggiunti da Israele con gli Emirati Arabi Uniti, il Sudan, il Marocco e il Bahrein.

COSA POTREBBE SUCCEDERE

Quello che potrebbe succedere è che gli Stati Uniti, i principali alleati israeliani, decidano di inasprire le sanzioni petrolifere sull’Iran, riducendo la disponibilità di barili sul mercato. In alternativa, oppure in risposta, l’Iran potrebbe attaccare i siti petroliferi in Arabia Saudita o bloccare lo stretto di Hormuz, un punto di passaggio fondamentale per il commercio marittimo del greggio.

CONSEGUENZE LIMITATE

L’aumento tutto sommato limitato dei prezzi del petrolio significa – secondo il Financial Times – che il mercato non si aspetta grandi sconvolgimenti, anche in caso di ritorsioni sull’Iran. A luglio il paese ha prodotto tre milioni di barili al giorno, il livello più alto dal 2018, e circa l’80 per cento del suo output finisce in Cina. È davvero improbabile che le eventuali sanzioni occidentali sul greggio iraniano possano alterare questo commercio, che si svolge al di fuori del sistema finanziario basato sul dollaro. E poi, nel caso in cui Israele dovesse avviare un’operazione militare contro Teheran e comprometterne la produzione petrolifera, la quantità di barili che verrebbe rimossa dal mercato sarebbe grossomodo il 3 per cento del totale. Per l’equilibrio domanda-offerta sono forse più rilevanti i tagli alla produzione di un milione di barili al giorno che l’Arabia Saudita porterà avanti fino a dicembre.

E SUL GAS?

Più che sul petrolio, la guerra nella Striscia di Gaza potrebbe avere ripercussioni sensibili sul gas naturale. Lunedì, infatti, per ragioni di sicurezza, il governo israeliano ha ordinato la sospensione temporanea delle attività nel campo di Tamar: si trova nel mar Mediterraneo orientale ed è gestito dalla società statunitense Chevron.

Ad agosto Israele aveva annunciato che avrebbe aumentato le esportazioni in Egitto del gas estratto a Tamar, con l’obiettivo sia di migliorare i rapporti con il vicino e sia di rafforzare il suo ruolo di fornitore energetico nella regione. Oggi, stando a Bloomberg, gli invii di gas israeliano all’Egitto si sono ridotti del 20 per cento.

Il campo di gas di Tamar è formato da sei pozzi, con un output compreso tra i 7,1 e gli 8,5 milioni di metri cubi al giorno.

La notizia dello stop nel giacimento è molto rilevante per l’Europa perché una parte del gas di Tamar che Israele rivende all’Egitto viene esportata nel Vecchio continente. Alla notizia, i prezzi europei del gas sono cresciuti del 14 per cento (oggi sono sui 46 euro al megawattora). Tanta sensibilità è dovuta al fatto che l’Unione europea ha bisogno di tutte le forniture possibili di combustibile per compensare il crollo delle importazioni dalla Russia, che prima dell’invasione dell’Ucraina soddisfaceva gran parte del fabbisogno comunitario. Gli stoccaggi europei di gas in vista della stagione fredda, comunque, sono pieni al 90 per cento.

La produzione di gas israeliano prosegue a Leviathan, un grande giacimento offshore a sud-ovest di Tamar. Eni, assieme alla francese TotalEnergies e alla qatariota QatarEnergy, partecipa alla ricerca di idrocarburi nelle acque del Mediterraneo orientale.

PROBLEMI IN VISTA CON ALGERIA E QATAR?

Al di là di Israele ed Egitto, i problemi per il gas all’Europa e all’Italia potrebbero riguardare anche l’Algeria (nostro primo fornitore, dopo il distacco dalla Russia) e il Qatar (importantissimo esportatore di gas liquefatto). I due paesi hanno relazioni strette con la Palestina e Hamas, e si oppongono alle normalizzazioni in atto tra Israele e il blocco arabo.

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