Giovedì il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto-legge sulle materie prime critiche di interesse strategico, cioè sui minerali e i materiali fondamentali per le transizioni energetica e digitale e per i settori della difesa e dello spazio. L’obiettivo, si legge nel comunicato del governo, è istituire “un quadro atto a garantire un approvvigionamento sicuro e sostenibile” di questi elementi.
Il provvedimento riguarda tutte le fasi della filiera delle materie prime critiche – dalla ricerca all’estrazione alla trasformazione, fino al riciclo – e si concentra in particolare sulla semplificazione delle procedure autorizzative: i permessi verranno rilasciati entro un tempo massimo di diciotto mesi per le attività estrattive e di dieci mesi per quelle volte alla lavorazione e al riciclaggio.
IL RUOLO DEL MINISTERO DELLE IMPRESE
A occuparsi del monitoraggio delle catene di approvvigionamento di queste materie prime critiche, delle loro scorte e delle esigenze di fornitura delle aziende sarà un apposito comitato tecnico – chiamato, appunto, “Comitato tecnico per le materie prime critiche e strategiche” – che verrà fatto confluire all’interno del ministero delle Imprese. Ogni tre anni, poi, questo comitato dovrà presentare un “Piano nazionale integrato delle materie prime critiche”, ovvero un documento contenente gli obiettivi, le azioni da intraprendere e le fonti di finanziamento disponibili.
IL RUOLO DELL’ISPRA
All’ISPRA – l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale – sarà invece affidata l’elaborazione di un “Programma nazionale di esplorazione” delle materie prime critiche, con la mappatura dei minerali strategici presenti sul territorio italiano. Il potenziale minerario dell’Italia è attualmente ignoto perché le esplorazioni degli elementi critici sono state interrotte decenni fa, con la chiusura delle miniere: un’attività che al tempo era ritenuta economicamente sconveniente, ma la transizione energetica – che poggia su metalli come il rame, il litio e le terre rare – ha modificato radicalmente il contesto.
Il programma esplorativo dovrà essere promosso entro il 24 maggio 2025. L’istituto avrà una dotazione iniziale di 3,5 milioni di euro, ha spiegato il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin.
L’ISPRA avrà anche il compito di vigilare sui progetti di ricerca di materie prime critiche, assieme alla Sovrintendenza del territorio interessato: saranno dotate del “potere di disporre (dandone comunicazione ai ministeri competenti) l’interruzione del permesso di ricerca in caso di accertamento di irregolarità nell’effettuazione delle ricerche”. Il coinvolgimento degli enti locali, se da un lato può essere garanzia di tutela delle comunità, dall’altro potrebbe rafforzare i movimenti NIMBY e ostacolare lo sviluppo dei giacimenti nazionali.
LE ROYALTIES
Il decreto prevede poi che i titolari delle concessioni minerarie dovranno versare ogni anno allo stato un’aliquota del prodotto del 5-7 per cento. Queste somme confluiranno nel Fondo nazionale del made in Italy e serviranno a sostenere nuovi investimenti nella filiera delle materie prime critiche.
COME CAMBIERÀ IL FONDO NAZIONALE DEL MADE IN ITALY
Il Fondo nazionale del made in Italy, partecipato dal ministero dell’Economia, verrà modificato per includere nel suo campo di applicazione anche le attività legate all’estrazione e alla trasformazione delle materie prime critiche.
Le risorse del Fondo – lo stanziamento iniziale è di 1 miliardo di euro – potranno venire incrementate anche con risorse provenienti dalle pubbliche amministrazioni; inoltre, è prevista la possibilità di investire anche in strumenti di rischio emessi da società di capitali con sede in Italia (ma non operanti nei settori bancario, finanziario o assicurativo). La gestione del Fondo potrà essere affidata a più soggetti.
LE PAROLE DEL MINISTRO URSO
Nella conferenza stampa seguita alla presentazione del decreto-legge, il ministro delle Imprese Adolfo Urso ha dichiarato che, delle trentaquattro materie prime critiche selezionate dall’Unione europea, “noi ne abbiamo già individuate nel nostro territorio, secondo le vecchie mappe, almeno quindici”, in giacimenti “particolarmente importanti e significativi”.
Già un anno fa Urso, ricordando gli obiettivi europei sull’estrazione delle materie prime critiche – almeno il 10 per cento del fabbisogno entro il 2030, in modo da ridurre la dipendenza dall’estero e in particolare dalla Cina -, aveva sottolineato la necessità, per l’Italia, di aprire nuove miniere. “Trent’anni fa eravamo un grande paese minerario”, aveva detto, “poi abbiamo chiuso tutte le miniere. Ora dobbiamo riaprirle, e magari altre ancora”.
DOVE SONO I GIACIMENTI ITALIANI DI MATERIE PRIME CRITICHE
I giacimenti italiani di litio (un metallo essenziale per le batterie) si concentrano fra Toscana, Lazio e Campania, in particolare nell’area a nord di Roma. Quelli di cobalto (un altro metallo utilizzato negli accumulatori, benché si stia cercando di sostituirlo) sono soprattutto in Piemonte, a Punta Corna, ma anche nel Lazio settentrionale. Il sud della Sardegna contiene terre rare (per i magneti dei veicoli elettrici) e fluorite (per l’alluminio). Il rame (per i cavi elettrici) è in Veneto, Lombardia e Toscana; il manganese (per le batterie e per l’acciaio) in Abruzzo, Calabria e Sicilia.
La semplice presenza di giacimenti sul territorio, però, non è di per sé indicativa di un alto potenziale minerario perché le esplorazioni – come detto – sono state interrotte da tempo.
– Leggi anche: Quali sono le materie prime critiche per l’Italia. Report Criet
I COMMENTI DEGLI ESPERTI
Secondo Gianclaudio Torlizzi, consigliere del ministro della Difesa per le materie prime, il decreto-legge rappresenta “un passo nella giusta direzione” ma “presenta delle criticità che non possono essere sottovalutate”. “In primo luogo”, ha spiegato Torlizzi a LaPresse, “non prevede il diritto di prelazione sull’estrazione mineraria da parte del governo in caso di estrema carenza nel mercato. Inoltre, non viene fatto alcun accenno alla prospettiva di vincolare l’attività di estrazione alla creazione di una filiera che contempli anche la produzione di beni ad alto valore aggiunto”. Il rischio, in questo senso, “è che si dia il via a un’azione di auto-depauperamento delle risorse nazionali per favorire gli investitori esteri”.
Il geologo Fabio Granitzio ha invece fatto notare al Sole 24 Ore che “per rimettere in marcia una miniera ferma ci vogliono almeno sette anni, per costruirne una nuova anche quindici”.
Assorisorse, l’associazione confindustriale di rappresentanza del settore minerario italiano, ha sottolineato la carenza di figure professionali giovani ed esperte del tema.
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