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Green Deal

Il Green Deal ci obbliga alla corsa ai metalli, ecco perché

Il Green Deal europeo può realmente far crescere la ricchezza e allo stesso tempo salvaguardare l’ambiente? Bisogna ancora capire se il piano della Commissione europea riuscirà a disaccoppiare la crescita del PIL dallo sfruttamento delle risorse disponibili nell’ambiente. L'approfondimento di Sergio Giraldo.

Il Green Deal europeo ci impone di cambiare il parco impianti di generazione di energia elettrica e di sostituire gli impianti attuali a gas e carbone con impianti a fonte rinnovabile, così da azzerare le emissioni di CO2. Come recita enfaticamente il suo imperiale preambolo, infatti, il Green Deal “intende garantire: 1) nessuna emissione netta di gas serra entro il 2050; 2) crescita economica dissociata dall’uso delle risorse; 3) nessuna persona e nessun luogo lasciato indietro” (sic).

Ma è davvero così? Il Green Deal europeo può realmente far crescere la ricchezza e allo stesso tempo salvaguardare l’ambiente? Detto in altri termini, si tratta di capire se il grande piano voluto dalla Commissione europea riuscirà a disaccoppiare la crescita del PIL dallo sfruttamento delle risorse disponibili nell’ambiente.

L’INTENSITÀ MINERALE DELLE RINNOVABILI

Il primo fattore che possiamo esaminare per verificare queste affermazioni è l’intensità minerale delle energie rinnovabili, cioè la quantità di minerali e metalli necessari per realizzare gli impianti di generazione elettrica a fonte rinnovabile (sole e vento).

Orbene (aspettavo da anni di poter usare questa parola), per avere un megawatt (MW) di potenza elettrica da fonte rinnovabile servono circa dieci volte più metalli di quanti ne servano per avere un megawatt di potenza convenzionale. Per la precisione, 1 MW di potenza elettrica alimentata a gas naturale richiede circa 1 tonnellata di metalli (in gran parte rame). Per 1 MW di potenza eolica su terra invece servono circa 10 tonnellate di metalli, tra rame, manganese e zinco. Se l’eolico è offshore, cioè in mare, per un singolo megawatt di potenza servono oltre 15 tonnellate di metalli, di cui 8 tonnellate di rame. Tutto ciò escludendo acciaio e alluminio, che pure servono per la struttura delle torri eoliche.

DAI COMBUSTIBILI AI METALLI

In sostanza, con il Green Deal si passa da una generazione di energia che necessita di combustibili per funzionare (gas, carbone) ad una che necessita di metalli per iniziare a funzionare. Ciò comporta che la struttura di costo dell’energia generata differisce a seconda della tecnologia. La generazione a fonte rinnovabile ha costi fissi alti, cioè investimenti da recuperare vendendo energia che ha un costo variabile quasi trascurabile (in teoria). Nelle tecnologie termoelettriche i costi variabili incidono molto di più, essendo rappresentati in massima parte dai combustibili, mentre i costi fissi pesano meno perché gli investimenti (in teoria) vengono “spalmati” su una produzione maggiore rispetto a quella da fonti rinnovabile.

Un impianto a gas può funzionare praticamente sempre salvo ordinaria manutenzione, mentre un impianto a fonte rinnovabile funziona quando la fonte (vento o sole) si manifesta. Si chiama fattore di capacità. Stando ai dati storici, in Italia sin qui l’energia eolica ha un fattore di capacità del 25% (circa 2.200 ore di funzionamento sulle 8.760 ore di un anno). L’energia solare ha invece un fattore di capacità del 12,5% (circa 1.100 ore su 8.760).

L’AUMENTO DELLA DOMANDA DI METALLI

L’aumento della domanda di metalli non deriverà solo dalla produzione di energia elettrica. Gli sviluppi delle reti elettriche di trasporto e distribuzione, le auto a batteria caricata dalla rete, la produzione di idrogeno per l’industria pesante e gli usi civili come il riscaldamento elettrico delle abitazioni aggiungeranno ulteriore pressione alla domanda. Stando allo scenario NZE (Net zero emission della IEA), che riguarda l’intero pianeta, da qui al 2050 sarà necessario estrarre dalla Terra quantità di materiali inusitate. Si tratta soprattutto di rame, alluminio, nichel, cobalto, litio, grafite, vanadio, nonché delle ben note terre rare (Rare Earth Elements, REE) come ittrio, lantanio, promezio, disprosio. L’elettrificazione dei consumi energetici implica un aumento della dipendenza dal neodimio, una delle terre rare, il miglior materiale conosciuto per produrre magneti, indispensabili all’elettrificazione.

In pratica, la corsa verso Net Zero comporterà un gigantesco boom delle attività minerarie. Dovendo elettrificare anche consumi energetici che oggi sono a base di petrolio e gas (mobilità e industria, segnatamente), le quantità di minerali e metalli richieste per arrivare allo scenario NZE sono enormi. Un’automobile elettrica necessita di più di 250 kg di metalli, otto volte più di una automobile convenzionale. Di questi 250 Kg, circa 70 sono di rame. Secondo IEA, la domanda annuale di metalli crescerà in media di 4 volte da qui al 2040, ma sembra una stima approssimata per difetto. Al 2040 la domanda di litio sarà cresciuta di 42 volte rispetto ai volumi del 2020, quella di grafite di 25 volte, cobalto 21 volte, nichel 19 volte, manganese 8 volte, terre rare 7 volte. Altre stime vedono un aumento molto più marcato della domanda di metalli, sino a far dubitare che le riserve disponibili siano sufficienti.

La domanda di rame dovrebbe quasi triplicare, passando da 22 a 60 milioni di tonnellate all’anno. Considerato che le riserve certe ad oggi sono di 890 milioni di tonnellate, ipotizzando di riuscire ad aumentare l’estrazione attuale del 100% entro il 2030 (da circa 20 a circa 40 milioni di tonnellate all’anno in media, ipotesi comunque poco realistica) sarebbero soddisfatti annualmente solo i due terzi della domanda e in poco più di vent’anni avremmo esaurito le attuali risorse mondiali di rame. Senza contare che una nuova miniera di rame ha bisogno, in media, di 16 anni per funzionare a pieno regime, mentre per aprirla ci vogliono circa 10 anni.

IL PROBLEMA DELLE RISERVE

Due parole sulle riserve. Quelle che oggi vengono classificate in questo modo si riferiscono a materiale omogeneo rispetto a quello attualmente in estrazione. Si tratta cioè di riserve già individuate di materiale, dalle caratteristiche simili (cioè di titolo comparabile), estraibile senza ingenti nuovi investimenti e grosso modo ai costi attuali. Diverso è invece il discorso delle risorse, già identificate o ancora da identificare, che richiederebbero nuovi investimenti, che hanno titolo più basso e/o che ad oggi è sub economico estrarre. In questo caso, parlando di rame, le risorse complessive salgono a 2,1 miliardi di tonnellate.

La coltivazione dei giacimenti di cosiddette terre rare genera poi ingenti scarti di polveri, inerti, acque reflue, acidi nonché contaminazione da torio, un elemento radioattivo che si libera durante la lavorazione. Difficile avere dati certi, visto che si tratta di attività svolte al 98% in Cina in gran segreto, ma si stima che produrre una tonnellata di REE può generare 60.000 metri cubi di gas tossici contenenti acido cloridrico, 200 metri cubi di acque reflue contenenti acidi e 1-1,4 tonnellate di rifiuti radioattivi.

La quantità di acqua necessaria alle lavorazioni minerarie è a sua volta esorbitante: per produrre una tonnellata di rame servono 126.000 litri di acqua, oggi per la gran parte acqua dolce. Il Cile è uno dei Paesi maggiori produttori e lì si stima che già al 2028 la quantità di acqua necessaria all’estrazione del rame aumenterà del 50%.

Il rilascio delle acque di lavorazione e degli acidi usati nelle lavorazioni poi dà conseguenze ambientali serie, per evitare le quali sono necessari costi molto alti. L’impronta idrica delle attività minerarie è quindi assai profonda.  Infine, l’impatto sociale derivante dall’apertura di nuove miniere sul territorio è pesante e da sempre oggetto di intense dispute. Si tratta di temi politicamente sensibili, che possono arrivare a determinare faglie sociali profonde, soprattutto quando si tratta di territori economicamente depressi o in declino.

IL GREEN DEAL E LE MINIERE

Per concludere sul punto, le fonti rinnovabili aiuteranno ad abbattere le emissioni di CO2, ma in compenso richiederanno lo sfruttamento intensivo di vecchie e nuove miniere. Queste necessità improvvise e fuori scala di minerale, con il revamping di miniere vecchie e l’apertura di nuove (processo che richiede non meno di una decina d’anni), avranno un impatto ambientale profondo ed esteso. Come abbiamo visto, il rendimento delle miniere nel tempo tende a calare: prima si estrae il minerale più abbondante e ricco, poi con il tempo è necessario estrarre materiale con titolo più basso, più scadente, che richiede più energia per essere lavorato e dunque comporta maggior impatto ambientale e maggiori costi. Il costo dell’estrazione, dunque, aumenta man mano che il minerale estratto è di più scarsa qualità, cioè a minore concentrazione di metallo. Normalmente, se il prezzo di mercato non è sufficientemente alto da consentire un adeguato ritorno economico dallo sfruttamento di una miniera, quella viene chiusa. Ma se la domanda è in qualche modo drogata da una necessità che non si cura del prezzo, come nel caso del Green Deal, le miniere restano aperte e i prezzi salgono.

Rispetto ad una domanda normale di questi metalli, negli ultimi anni addirittura in calo, il Green Deal costituisce una gigantesca alterazione delle dinamiche di mercato. Ciò vale sia in termini di quantità necessarie, sia in termini di tempo entro il quale queste quantità devono essere rese disponibili. Già nell’autunno 2022 uno dei maggiori trader di commodity, Trafigura, avvertiva che nei magazzini le scorte di rame potevano coprire al massimo 5 giorni di fabbisogno, mentre normalmente le scorte si misurano in settimane. Una robusta impennata dei prezzi è l’inevitabile effetto collaterale di un tale booster iniettato nella domanda, in un settore in cui la norma è rappresentata da riserve certe, tempi lunghi e rendimenti decrescenti. Il fatto che il Green Deal imponga certi obiettivi per legge ed entro tempi stretti forza all’utilizzo di certe tecnologie, quelle più conosciute ad oggi, dunque di certi materiali. Si altera così l’equilibrio fisiologico di mercato tra domanda e offerta, introducendo turbative di prezzo di cui chi impone queste politiche ha ben poca coscienza. O forse moltissima.

Il preambolo del Green Deal “crescita economica dissociata dall’uso delle risorse” è dunque chiaramente falso. Che da qualche parte ne resti testimonianza.

(Estratto dalla newsletter La durezza del vivere di Sergio Giraldo; ci si iscrive qui)

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