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Firpo

Ecco i consigli delle grandi aziende al governo su auto e green

Stefano Firpo, il direttore generale di Assonime (l'associazione delle società per azioni italiane), si scaglia contro le politiche europee sull'auto elettrica e connessa: senza una strategia industriale condivisa, che manca, l'Europa perderà rilevanza rispetto a Cina e Usa.

 

Per rivitalizzare la filiera automobilistica italiana, della cui crisi Magneti Marelli è solo l’ultimo sintomo, e permettere al settore di tenere il passo con le transizioni energetica (mobilità elettrica) e digitale (guida autonoma) non basteranno “di certo politiche di sussidio nazionali di breve respiro”. Per “dare un futuro a una filiera che rimane strategica per la crescita, la competitività e la tenuta occupazionale del nostro paese” serve piuttosto “una politica industriale europea”: cioè un piano ben strutturato, di lungo termine e coeso a livello comunitario. Lo ha scritto sul Foglio Stefano Firpo (nella foto), direttore generale di Assonime (l’associazione delle società per azioni italiane) ed ex-capo di gabinetto del ministro per l’Innovazione tecnologica Vittorio Colao nonché in precedenza stretto collaboratore di Corrado Passera quando l’attuale numero uno di Illimity era capo azienda di Banca Intesa.

CHI C’È IN ASSONIME

Nella presidenza di Assonime compaiono figure legate a Monte dei Paschi di Siena, Enel, Anima Holding (Patrizia Grieco), Poste Italiane (Matteo Del Fante), Intesa Sanpaolo (Gian Maria Gros-Pietro), Banca Nazionale del Lavoro-BNP Paribas (Luigi Abete), Ferrovie dello Stato (Innocenzo Cipolletta) e Banca Sella (Maurizio Sella).

L’ACCUSA DI FIRPO: LA COMMISSIONE EUROPEA HA LASCIATO CAMPO LIBERO ALLA CINA

Nella sua analisi Firpo dà un giudizio decisamente negativo sul Green Deal, il piano della Commissione europea per l’azzeramento netto delle emissioni di gas serra entro il 2050; un piano che ha nell’elettrificazione – dei consumi domestici e industriali, ma anche della mobilità – uno dei suoi fondamenti.

A proposito di mobilità, Firpo accusa Bruxelles di aver “scientemente scelto” una sola tecnologia per la riduzione dell’impatto emissivo dei veicoli – l’elettrico, appunto -, scartando tutte le altre possibilità, incluse quelle in cui l’industria europea è tradizionalmente forte: ovvero il motore a combustione interna, che verrà sempre più marginalizzato con il divieto all’immatricolazione di veicoli alimentati a benzina e gasolio dal 2035 sul territorio europeo.

Secondo il direttore di Assonime, l’Unione europea “non ha saputo costruire una politica industriale a supporto di questa imponente trasformazione [si riferisce alla transizione all’elettrico, ndr] lasciando alla Cina campo libero di accesso al mercato europeo”. La Cina è il paese che produce più veicoli elettrici e più batterie, il vero componente critico, oltre ad esercitare una posizione dominante sull’estrazione e soprattutto sulla raffinazione dei metalli di base (litio, cobalto, nichel, terre rare e non solo).

I dati della Commissione dicono che le auto elettriche cinesi, sempre più popolari sul mercato comunitario, sono in media del 20 per cento più economiche di quelle europee. A settembre la presidente Ursula von der Leyen ha annunciato un’inchiesta anti-sovvenzioni sui veicoli elettrici provenienti dalla Cina che potrebbe portare, qualora emergessero le prove di violazioni delle norme sugli aiuti di stato, all’imposizione di dazi.

Attraverso i dazi, Bruxelles vorrebbe ripristinare la parità di condizioni con Pechino; ma le tariffe potrebbero non essere sufficienti, considerato il vantaggio tecnologico e filieristico accumulato dai cinesi. Le principali aziende produttrici di batterie sono cinesi, come CATL e BYD. Firpo scrive che “nel 2022 l’Europa ha importato dalla Cina circa il 54 per cento del totale delle auto elettriche a batteria”.

“Viene da domandarsi”, prosegue Firpo, “se veramente a Bruxelles qualcuno abbia mai pensato che la Cina avrebbe giocato pulito, da economia di mercato nella corsa all’elettrico mentre noi – impegnati come eravamo a mettere fuori legge il diesel – ci scordavamo del complicatissimo e costosissimo passaggio all’elettrico della nostra industria tutta concentrata sul motore endotermico!”.

GLI AMERICANI DOMINANO SUI SOFTWARE PER AUTO

“Sul fronte digitale la situazione non è migliore”, sostiene Firpo, perché la filiera automobilistica europea è rimasta indietro non soltanto sulle tecnologie per l’elettrico, ma – appunto – anche in quelle per i veicoli autonomi e connessi.

Se sull’elettrico l’Europa rischia di perdere capacità industriale nei confronti della Cina, sui software per auto (i cosiddetti cruscotti intelligenti) sono invece gli statunitensi ad essere in vantaggio: grossi nomi come Apple, Google e Qualcomm sono molto attivi sul mercato.

IL VALORE AGGIUNTO SI ALLONTANERÀ DALL’EUROPA?

“Nell’auto elettrica e iper-digitalizzata del futuro”, scrive Firpo, “interi sistemi e sottosistemi spariranno (Abs, trasmissione, Engine Management per dirne un po’) e le loro funzioni saranno centralizzate sul computer di bordo con una spettacolare semplificazione della catena di fornitura dei componenti auto. La filiera della componentistica tornerà ad essere quasi esclusivamente meccanica, lo sviluppo prodotto lo farà chi governa il sistema operativo e il valore aggiunto della componentistica si svuoterà”.

Il nuovo valore aggiunto della produzione automobilistica – la batteria e il software – rischia insomma di spostarsi dall’Europa alla Cina e agli Stati Uniti.

SERVE UNA POLITICA INDUSTRIALE EUROPEA, DICE FIRPO

Se questa è la situazione, il direttore di Assonime pensa che il settore automobilistico europeo debba “iniziare a collaborare sugli investimenti tecnologici necessari” perché il divario con l’America e l’Asia è tale che “nessun singolo produttore europeo può pensare di colmarlo in solitudine”. Occorre, in sostanza, una politica industriale europea sull’automotive e non tanti e frammentati piani nazionali.

OCCHIO AI SUSSIDI

Peraltro, sul tema dei sussidi pubblici, a febbraio Stefano Firpo – intervistato dal Corriere della Sera – aveva dichiarato che un “‘liberi tutti’ indiscriminato sugli aiuti di stato” è una trappola che penalizzerebbe le aziende italiane rispetto alla concorrenza francese e tedesca, visto che i governi di Parigi e Berlino hanno maggiori capacità di spesa. A suo dire, inoltre, l’Unione europea deve “evitare le risposte sbagliate, come rispondere con un buy Europe al buy America“: il riferimento è all’Inflation Reduction Act, la legge da 369 miliardi di dollari di incentivi alla manifattura statunitense di tecnologie pulite.

A Firpo l’approccio di Joe Biden piace. “Il messaggio che arriva dall’America”, sostiene, “è che la trasformazione verde si fa con l’industria, sviluppandone la capacità produttiva. Dobbiamo uscire invece da un atteggiamento europeo che in tanti anni ha pensato di fare la decarbonizzazione un po’ contro l’industria”.

Sugli sussidi europei in risposta a quelli americani, invece, il direttore di Assonime è scettico. Questo scetticismo è condiviso dal governo di Giorgia Meloni, che pensa che l’allentamento della normativa comunitaria sugli aiuti di stato metta le imprese italiane in una posizione di svantaggio competitivo rispetto a quelle tedesche e francesi, appoggiate da esecutivi con maggiori margini di intervento. Dei 672 miliardi di euro in aiuti di stato che la Commissione ha approvato nel 2022, la Germania è valsa il 53 per cento della somma totale e la Francia il 24 per cento; l’Italia, invece, solo il 7 per cento.

“Per noi è fondamentale che il commercio globale resti aperto”, aveva detto Firpo al Corriere. “In questo condivido l’approccio del ministro delle Imprese Adolfo Urso quando parla di ‘stato stratega’, non ‘sovranista’, non protezionista”.

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