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Perché tutti i ministri dell’Economia in Italia continuano a rilasciare tristi interviste? Ecco la risposta di Polillo

L'analisi di Gianfranco Polillo, già sottosegretario al Mef, dopo l'ennesima (mesta) intervista del ministro dell'Economia ai quotidiani

 

Se l’economia italiana non strisciasse da troppo tempo sul fondo limaccioso della crisi; se il tasso di disoccupazione specie giovanile non fosse quello che è; se i redditi aumentassero in linea con i Paesi dell’Ocse e non della metà; se l’area del benessere non si fosse ristretta alle sole aree del Nord-est, facendo aumentare il divario (soprattutto il Mezzogiorno) con il resto del Paese; se l’attivo consistente delle partite correnti della bilancia dei pagamenti non fosse caratterizzato da una doppia sovrapposizione negativa (calo dell’export e crollo delle importazioni), espressione dell’endemica debolezza della domanda interna; le rassicuranti parole del ministro Giovanni Tria meriterebbero un lungo e sospirato applauso.

Ma purtroppo così non è. Forse, a fine anno, il deficit di bilancio sarà inferiore al previsto. Una buona notizia, ma tutt’altro che risolutiva. Viene alla mente la parabola dei tre talenti e la condanna biblica nei confronti di colui che non aveva osato. Limitandosi a conservare lucida la moneta avuta in dotazione. Tria, per la verità, si rende conto di questa contraddizioni. “Da un punto di vista economico per me – ha detto ieri nella sua intervista a Il Corriere della Sera – il deficit non è un tabù”. Ed ha ragione. Ma questo assunto doveva essere il punto centrale della sua intervista. Un messaggio inviato, seppure tardivamente, alla Commissione europea.

Su un piano scientifico, sono le ricette di Keynes contro la disoccupazione involontaria, di fronte al forte attivo della bilancia commerciale. La necessità di una visione più ampia e realistica del quadro macroeconomico, che non si fissi solo sugli aspetti contabili di finanza pubblica. Non il fare buche per poi riempirle di sabbia, sperando negli automatismi del mercato. Ma una gestione intelligente della finanza pubblica, per sciogliere quei nodi che frenano lo sviluppo. Investimenti pubblici? Certo, ma non solo.

Pericolosi statalisti? Non diciamo sciocchezze, negli Usa la crisi bancaria è stata risolta dall’intervento dello Stato. E lo stesso è avvenuto in Inghilterra, Francia e Germania. Il mercato quando è possibile, lo Stato quando necessario: il paradigma caro a Giulio Tremonti. Quindi nessuna remora. Come del resto suggerisce la stessa Commissione europea nella procedura, poco conosciuta, dell’Allert meccanism. Chissà se l’avvocato del popolo l’abbia mai evocata nei suoi rapporti bilaterali con i grandi del Continente; o, al contrario, non sia limitato a recepirne gli interessati suggerimenti?

Che il Tesoro sia più preoccupato della tenuta dei conti pubblici, come traspare dall’intervista del ministro dell’Economia, è, tuttavia, comprensibile. Deve garantire, quasi ogni mese, il rinnovo dell’ingente massa dei titoli del debito pubblico, sottoposti a rinnovo. Ma anche la dimostrazione di un assetto istituzionale sbilenco. Al quale sarebbe necessario porre rimedio, per evitare di perseverare nei vecchi errori del passato.

In precedenza le funzioni era diversificate: Tesoro, che inglobava la Ragioneria dello Stato, Finanze e Bilancio, come snodo essenziale, seppure non sempre efficace, di un impegno programmatorio. Fu poi la Presidenza del consiglio, con l’istituzione di un’apposita “cabina di regia” a farsi carico del necessario coordinamento della politica economica. Uno stretto raccordo tra tutti i ministeri economici e la presenza necessaria di quelle Autorità indipendenti – a partire dalla Banca d’Italia – in grado di offrire un supporto tecnico – analitico, non addomesticato da esigenze settoriali o di carattere politico.

Poi in nome della semplificazione amministrativa questo pluralismo si perse nel moloc dell’unico ministero dell’Economia. La ricchezza dei diversi possibili apporti cedette il passo all’indirizzo univoco del controllo dei conti pubblici. Che divenne l’unica bussola della politica economica. Che, ovviamente, non risolse alcunché. Vista qual è stata la dinamica del debito pubblico, nonostante i feroci aumenti della pressione fiscale. Nessuna meraviglia. Fin quando non si capirà che solo puntando su un tasso di crescita maggiore dell’economia si potranno avere risultati positivi anche sul fronte degli equilibri finanziari, sarà tutto inutile. Ed il prossimo ministro dell’Economia, chiunque esso sarà, non potrà che rilasciare una mesta intervista. Nel deserto sociale, che lo circonda.

 

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