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Mattarella è per nulla smanioso di sciogliere le Camere. I Graffi di Damato

Fa bene il capo dello Stato, Sergio Mattarella, ad essere preoccupato, oltre che irritato e deluso come lo ha descritto il quirinalista del Corriere della Sera, dopo il suo primo giro di consultazioni, ed anche in vista del secondo.

 

Dopo le consultazioni di rito e due ore di riflessione non rituale – trascorse prevalentemente al telefono dal presidente della Repubblica per cercare di farsi spiegare dagli interessati diretti, o loro intermediari, quello che non avevano saputo o voluto dirgli chiaramente al Quirinale ma avevano lasciato intravvedere con dichiarazioni e altri messaggi fumosi – non è stato annunciato lo scioglimento anticipato delle Camere. Né sono state avviate le procedure con la convocazione dei loro presidenti, che il capo dello Stato è tenuto in queste circostanze ad “ascoltare”. Ma non sono stati neppure sciolti i nodi politici necessari per evitare questa evenienza, che pertanto continua ad incombere sulla crisi di governo.

Ciò ha procurato a Sergio Mattarella – parole del navigato quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda – “irritazione e delusione” facendogli lanciare al Paese, e non solo ai partiti, all’ora di cena, quello che sempre Breda ha definito “il messaggio forse più drammatico del suo settennato”. Esso si è concluso con la concessione di cinque giorni di tempo ai partiti maggiori per chiarirsi fra di loro, e ancor più al loro interno, e riferirgli in un altro giro di consultazioni programmato da martedì prossimo.

Mattarella nello spettacolo titolato “Tra capi e Colle” sul manifesto, se l’è presa, in particolare, con “alcuni partiti”, non volendo nominare esplicitamente i grillini per un riguardo o una prudenza non so francamente sino a che punto condivisibili, che gli hanno parlato di interlocuzioni o trattative in corso senza indicare con chi di preciso per formare una maggioranza, e con quali obiettivi programmatici davvero. Agli stessi grillini, questa volta esplicitamente, si era rivolta poco prima una nota della segreteria del Pd per reclamare chiarezza sul forno scelto per cercare una soluzione della crisi: a quello dello stesso Pd o a quello alternativo della Lega, per niente chiuso nonostante le accuse e persino gli insulti precedenti e successivi alle dimissioni del presidente del Consiglio Giuseppe Conte. La cui successione infatti, pur non dipendendo da lui il conferimento dell’incarico e poi la nomina, Matteo Salvini ha offerto a Luigi Di Maio apprezzandone esplicitamente il lavoro svolto come vice presidente e pluriministro dell’esperienza gialloverde, e scaricando quindi tutte le colpe delle incomprensioni, dei ritardi e quant’altro del governo uscente a Conte. Dei cui attacchi rivoltigli personalmente nell’aula del Senato, in toni a volte persino paternalistici, con quella mano appoggiatagli sulla spalla e quel “Matteo” pronunciato con aria beffardamente confidenziale, Salvini si è in qualche modo vendicato.

Per quanto liquidata come un’uscita da “Pagliaccio” nel fotomontaggio di prima pagina dal Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, al quale non basta evidentemente “il cazzaro” autorizzatogli con tanto di sentenza dal tribunale di Milano, la sostanziale offerta di Salvini della Presidenza del Consiglio a Di Maio per un nuovo governo gialloverde preposto all’approvazione definitiva della riforma costituzionale che riduce il numero dei parlamentari e alla predisposizione della manovra finanziaria e conseguente bilancio dello Stato, ha creato problemi all’interno del Movimento 5 Stelle.

Fra i grillini, nonostante le telefonate o messaggi intercorsi fra Davide Casaleggio e Nicola Zingaretti, permangono dubbi sulla praticabilità e convenienza di un matrimonio col Pd –“I promessi sposi”, ha titolato la Repubblica di carta tra le foto di Di Maio e dello stesso Zingaretti – avendo avvertito il rischio di cattive sorprese. Una o la principale delle quali sarebbe quella di una gestione delle trattative, da parte del segretario del Pd, non a caso criticato nelle ultime ore dai renziani, finalizzata ad una rottura. Che consentirebbe a Zingaretti, con le elezioni anticipate, non la riduzione di tutti i parlamentari reclamata sotto le 5 Stelle, e destinata al naufragio con lo scioglimento delle Camere, ma la riduzione solo dei parlamentari del Pd riconducibili all’ex presidente toscano del Consiglio, oggi in grado di controllare i gruppi parlamentari del partito per averne determinato l’elezione l’anno scorso con i candidati scelti da lui stesso. Stavolta a sceglierli sarebbe Zingaretti. E il Pd diventerebbe davvero diverso da quello di Renzi. Il quale peraltro rimane indigesto ai pentastellati anche dopo l’improvvisa apertura ricevuta, e ricambiata peraltro col rifiuto di farsi contaminare da qualche loro ministro particolarmente visibile in un eventuale governo di soccorso alla diciottesima legislatura cominciata solo poco più di un anno fa.

D’altronde, la situazione interna al Pd, da cui non potrebbe prescindere nessun alleato, è tale che persino Marco Travaglio sul già citato Fatto Quotidiano, non certamente sospettabile di essere contrario al matrimonio giallorosso sponsorizzato dalla più consistente e diffusa Repubblica di carta, l’ha paragonato a quella da guerra civile della Libia.

Fa bene quindi Mattarella, per nulla smanioso di sciogliere le Camere, ad essere preoccupato, oltre che irritato e deluso come lo ha descritto – ripeto – il quirinalista del Corriere della Sera, dopo il suo primo giro di consultazioni, ed anche in vista del secondo.

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