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Trump Al-Bagdhadi

Vi racconto come Trump ha trumpeggiato su al-Bagdhadi

Il raid notturno al confine con la Turchia della Delta Force che ha determinato l’eliminazione del nemico n. 1 degli Usa – il n. 1 dell’Isis e ormai ex califfo Abu Bakr al-Bagdhadi - spiegato da Donald Trump

Alla fine, hanno davvero ragione i reporter di Politico quando, per descrivere quel che è successo tra la sera di sabato e la mattina successiva a cavallo tra gli Usa e il Medio Oriente, con l’intero mondo come spettatore, ne parlano come della “quintessenza” del trumpismo o, ancor meglio, come uno spettacolo che ha visto al centro della scena “il vero Trump dall’inizio alla fine”.

Uno show in cui l’audace raid notturno al confine con la Turchia della Delta Force che ha determinato l’eliminazione del nemico n. 1 degli Usa – il n. 1 dell’Isis e ormai ex califfo Abu Bakr al-Bagdhadi – è rimasto sullo sfondo di una comunicazione sapientemente gestita dallo staff di The Donald dal primo all’ultimo atto. Da quando, cioè, un tweet partito dall’account del tyccon alle nove della sera, ora di Washington distratta in quel momento dalla concomitante partita di baseball della World Series, ha rivelato al mondo unicamente che “Qualcosa di molto grosso è appena successo”, fino a quando, convocati esattamente dodici ore dopo i reporter nella cornice della Diplomatic Room della Casa Bianca per un major statement, il presidente ha spezzato la suspence che aveva attanagliato l’’opinione pubblica globale, confermando in diretta televisiva e social tutti i dettagli del blitz circolati vorticosamente nelle ore precedenti, a partire dal più atteso: Abu Bakr al-Baghadi is dead.

https://twitter.com/realDonaldTrump/status/1188463248670109696

Questi aspetti scenici non entreranno forse nella storia come accadrà invece per l’unica cosa che conta, vale a dire la professionalità di chi ha preso parte all’operazione del Pentagono denominata, in onore di un ostaggio americano poi trucidato dai jihadisti, “Kayala Mueller”: una catena che parte dal personale di intelligence (americano, curdo e iracheno) che ha localizzato mesi fa, dopo una caccia durata cinque anni, il compound in cui si era rifugiato l’uomo più ricercato del mondo, fino ai cento uomini della Delta che, imbeccati da quelle informazioni, dopo aver sorvolato per 70 minuti a bordo di otto elicotteri Chinhook il territorio ostile che separa la capitale del Kurdistan iracheno Erbil a quel minuscolo villaggio della provincia siriana di Idlib al confine con la Turchia, hanno stanato la primula rossa del jihad, spingendolo ad far detonare il giubbotto esplosivo che aveva indosso e che ha procurato la morte a lui e a tre dei suoi figli.

Ciò detto, c’è un punto politico di questo show che mescola action e horror che non può sfuggire ai tanti che hanno seguito la parabola del presidente più anticonformista della storia americana.

Il punto che non si può ignorare è che la gloria che ricade sui valorosi militari che con sprezzo del pericolo hanno decapitato il vertice dell’Isis finisce inesorabilmente per riverberarsi sull’uomo cui l’attenta regia dei suoi collaboratori ha riservato il momento clou dell’annuncio urbi et orbi e della conferma del rumor rimbalzato da un angolo all’altro della terra nelle dodici ore precedenti. Puro spettacolo, insomma, che prelude al riconoscente scroscio di applausi per la mission accomplished e ad un torrente di schede elettorali riversate nelle urne con impresso quel cognome tedesco che è sinonimo in tutto il mondo dell’attuale fase convulsa ma elettrizzante della politica a stelle e strisce.

Ed è uno spettacolo in cui l’ex protagonista del reality The Apprentice può sfoggiare il talento del consumato attore e scandire le parole sguaiate che nessuno dei suoi predecessori, nelle medesime circostanze, si sarebbe sognato di pronunciare. Parole che, per quanto rudi e taglienti, riflettono egregiamente gli umori dell’America profonda e spiegano bene quindi la radice del successo della presidenza Trump. Quel “killer brutale” – ha spiegato infatti un uomo in perfetta forma davanti al suo oggetto preferito, le telecamere – che ha sfidato l’America, incoronandosi imperatore di tutti i musulmani del pianeta e accomodandosi su un trono grondante sangue, è “morto come un cane” e un “codardo”.

Puro Trump, insomma, che con gran scorno degli innumerevoli detrattori del suo stile bombastico e politicamente scorrettissimo si ritrova al tempo stesso al centro della scena e dei cuori di milioni di americani riconoscenti nei confronti di un leader che, a differenza di tanti altri, sa mantenere le promesse. E la “morte violenta” del califfo che Trump ha descritto durante il lungo annuncio di ieri con dovizia di particolari e sprezzo del bon ton è qualcosa che lui aveva assicurato agli elettori fin dal principio della sua avventura politica. Un successo bello e buono, insomma, che il twittatore compulsivo e brutale che c’è in lui potrà incassare come un assegno coperto e rotondissimo quando verrà, tra dodici mesi esatti, l’election day.

Attendiamoci perciò, in vista di quel giorno fatale, che gli zelanti collaboratori del presidente risfoderino e sfruttino alacremente la foto simbolo di questo grande trionfo che il social media manager di Trump, Dan Scavino Jr, ha rilanciato prontamente su Twitter (e dove se no?).

E’ uno scatto studiato ad arte che inquadra il commander in chief reduce, dice la sua schedule, da una partita di golf – seduto al tavolo della Situation Room affiancato dagli uomini che con lui sono rimasti incollati per due ore agli schermi collegati alla telecamera del drone che sorvolava la zona del raid. Tutti lì, attorno al capo, in silente contemplazione di quello che lo stesso Trump descriverà più tardi come qualcosa di “simile a un film”. Un war movie che culminerà con le brevi parole scandite dalla lontana Siria dal comandante dell’operazione della Delta: ‘100% confidence, jackpot.”

Oltre al protagonista assoluto, nel quadretto che ha sullo sfondo il sigillo presidenziale finiscono così il vicepresidente, Mike Pence, il capo del Pentagono Mark Esper, il neo-insediato Consigliere per la Sicurezza Nazionale Robert O’Brien, e gli immancabili uomini in divisa e con le stellette sulle spalline nelle persone del capo degli Stati Maggiori Riuniti Mark A. Milley e del vice-direttore delle Operazioni Speciali e del Controterrorismo Marcus Evans.

Ieri, nel web e non solo si sprecavano i paragoni con l’analoga istantanea del 2 maggio del 2011 in cui il predecessore Barack Obama, attorniato dai suoi collaboratori tra cui una Hillary Clinton particolarmente provata, attendeva fremente e scuro in volto l’annuncio che sarebbe infine arrivato dal quartier generale della CIA per bocca del suo capo di allora, Leon Panetta: “Geronimo EKIA”, espressione in codice che conteneva il formidabile messaggio della morte del nemico n. 1 di allora, Osama Bin Laden, ad opera dei Navy Seals.

La similitudine tra quel momento topico di otto anni e mezzo fa e quello consumatosi l’altra notte a Washington rappresenterà forse, per il vincitore di ieri, l’unica nota stonata di un concerto impeccabile che ha affidato a lui il ruolo di primo violino.

Trump come Obama, insomma, ma fino a un certo punto. E non solo perché oggi, a differenza del 2011, al centro dell’obiettivo delle telecamere c’è un Repubblicano (benché sui generis) e non un liberal. Il paragone finisce qui soprattutto perché due primi violini non interpretano mai allo stesso modo il medesimo spartito. E Trump, checché se ne dica, è un solista senza pari e per giunta baciato dalla fortuna.

La fortuna che ha voluto donargli il trofeo più ambito – il primo, indiscutibile successo in politica estera – negli stessi giorni in cui i suoi militari schierati in Siria, per suo espresso ordine e contro la volontà di mezzo mondo, stanno abbandonando frettolosamente il terreno da cui il califfo pochi anni fa impartiva ordini alle sue armate e presiedeva a massacri inenarrabili.

E anche questo, come dice Politico, è puro stile Trump, “dall’inizio alla fine”.

(estratto dal Taccuino estero di Policy Maker)

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