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Bentivogli Fca

Che cosa succede (e succederà) agli stabilimenti Fca. Il libro di Bentivogli e Pirone

Il Bloc Notes di Michele Magno su "Fabbrica Futuro", il libro di Marco Bentivogli e Diodato Pirone, su presente e futuro degli stabilimenti italiani di Fca

Secondo Antonio Gramsci, il fordismo “è stato il maggiore sforzo collettivo verificatosi finora per creare, con rapidità inaudita e con una coscienza del fine mai vista nella storia, un nuovo tipo di lavoratore e di uomo” (“Americanismo e fordismo”, 1934). In altri termini, per il fondatore de “L’Ordine Nuovo” il fordismo non era un semplice modello produttivo, ma un sistema integrato di nuove tecniche, nuove relazioni sociali e nuove forme istituzionali in cui si consuma una vera e propria mutazione antropologica, ossia l’estensione alla totalità delle relazioni umane dei metodi e dei valori di fabbrica.

Nel 1936, due anni dopo lo scritto gramsciano, un maestro del cinema come Charlie Chaplin firmava un memorabile affresco di quella mutazione, usando la catena di montaggio come simbolo (delle costrizioni) dei “Tempi moderni”. E da noi ancora oggi, quando la televisione cita la grande fabbrica, non manca di riproporre i vecchi fotogrammi di Mirafiori, con le linee di montaggio gremite di operai che lavorano fianco a fianco. Immagini che non hanno più niente a che vedere con la realtà odierna, ma che testimonia della forza con cui il paradigma coniato da Frederick Taylor e Henry Ford si è imposto nell’immaginario collettivo e tuttora, almeno in qualche misura, vi regna.

In effetti, è da un trentennio che nel nostro Paese non si parla di grandi fabbriche per quelle che sono diventate. Con poche eccezioni, che si possono contare sulle dita di una mano. L’ultima è un libro fresco di stampa di Marco Bentivogli e Diodato Pirone, “Fabbrica Futuro” (Egea). È il viaggio di un sindacalista e di uno studioso – che li conoscono come le loro tasche – negli stabilimenti italiani di Fca. Un viaggio che smonta pezzo per pezzo tutti gli stereotipi, costruiti da un giornalismo pigro e disinformato, costruiti per celebrare la crisi irreversibile, se non il de profundis, della manifattura e del lavoro operaio.

Forse i meno giovani ricordano un bel film di Nanni Loy, “Mi manda Picone” (1982). Racconta la frenetica ma vana ricerca di un operaio delle acciaierie di Bagnoli, scomparso in ambulanza dopo essersi dato fuoco davanti al consiglio comunale. Lo spettatore scopre lentamente, attraverso un viaggio tra i misteri di una Napoli che è la trasparente metafora dei vizi nazionali, che quell’operaio faceva mille mestieri diversi e aveva molte vite differenti.

In altre parole, la sua identità sociale non era chiaramente definita, ma era ambigua e sfuggente, quasi inafferrabile. Già all’inizio degli anni Ottanta, la sensibilità artistica del regista aveva colto perfettamente la mutata percezione del lavoro di fabbrica, ormai vissuto come un ripiego e non più come motivo di orgoglio. Dopo un decennio di lotte straordinarie che ne avevano celebrato la centralità, la classe operaia sembrava sulla via di uno storico arretramento, come già era era stato intuito dai vignettisti di Cipputi, la tuta blu sfidata dalla modernità, e di Gasparazzo, il proletario disincantato e scansafatiche.

È allora che comincia a fiorire una vasta letteratura sul declino irreversibile del lavoro nella società industriale. L’aveva pronosticato nel 1974 lo studioso marxista Harry Braverman, esaminando gli effetti della meccanizzazione di massa negli Stati Uniti. Più tardi, saranno i teorici della decrescita felice a decantare le magnifiche sorti e progressive del reddito di cittadinanza e della liberazione “dal” lavoro.

La storia ha smentito queste disinvolte profezie. Perché è vero l’esatto contrario: il lavoro nell’industria non solo non si riduce, ma richiede incessantemente più partecipazione, più competenze e, quindi, maggiore autonomia. Gli autori, pertanto, insistono giustamente sulla necessità di gettare alle ortiche una visione della fabbrica ferma al secolo scorso, quando “l’odore dell’officina sapeva di trucioli di ferro, di olio lubrificante, di acidi per trattamenti termici, di tute sporche” (copyright di Riccardo Ruggeri).

La verità, sostengono Bentivogli e Pirone, è che anche la vecchia Fiat ha profondamente cambiato la sua cultura del lavoro. Operazione più volte tentata nel passato, nel 1972 a Cassino con la nascita delle “isole” e nel 1993 a Melfi con la “fabbrica integrata”, ma sempre abortita da un corpaccione aziendale abituato a una concezione gerarchica del rapporto con le maestranze. Ora, invece, si lavora in modo diverso rispetto a pochi anni fa: Cipputi non è più chiamato solo a eseguire, ma anche a pensare.

Ma Bentivogli e Pirone sono persone serie, e non possono essere scambiati per banali apologeti dell’opera di un manager straordinario quale è stato Sergio Marchionne, o del coraggio mostrato da quella parte non ideologica del sindacato che ha saputo scommettere sul futuro di un gruppo sull’orlo del collasso. Perché entro il prossimo decennio le vetture elettrificate trasformeranno l’automobile in una sorta di computer su quattro ruote, da produrre e usare molto diversamente. Questo significa che Fca, come tutti i grandi costruttori, “è stretta nella morsa tra l’inevitabile aumento degli investimenti e la prevedibile riduzione degli utili resi dal capitale impegnato”.

In questo quadro, la fusione con Psa è stata forse una scelta obbligata per continuare a competere nel mercato dell’automotive. Ma è una scelta non priva di incognite, sarebbe sciocco negarlo (Carlos Tavares, al di là delle sue assicurazioni, non è certo un manager dal cuore tenero). Tuttavia, non credo che sarà facile per lui calare la scure su qualche impianto italiano di Fca. In ogni caso, l’Italia non può rinunciarvi, anche perché – qui condivido senza riserve l’opinione degli autori – restano una frontiera tecnologica, un incubatore di conoscenze e una leva strategica per l’economia e la società nazionale.

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