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Vi spiego come sarà la Fca post Marchionne di Manley

Luigi Di Maio, in tutt’altre faccende affaccendato, farebbe bene a prendere in mano fin da subito il bilancio della Fiat Chrysler Automobiles ben più difficile da leggere delle note di Tito Boeri. Perché di qui al prossimo anno potrebbe trovarsi tra le mani una patatona così bollente che difficilmente potrà reggerla. Il cambio al vertice del gruppo e l’addio di Sergio Marchionne, infatti, solleva interrogativi pesanti sul futuro dell’industria automobilistica italiana. La Fca è ancor oggi la più grande impresa manifatturiera del paese e la filiera dell’auto che comprende sia la componentistica sia la finanza sia la rete distributiva, cioè il commercio, è la locomotiva che ha trascinato il paese verso la ripresa, in parte responsabile anche dell’attivo della bilancia commerciale.

La scelta di Mike Manley, il manager inglese che ha gestito la Jeep e il mercato asiatico, è un messaggio molto chiaro sulla strategia futura. Il marchio delle antiche camionette made in Usa avrà una posizione leader (e questo lo aveva già detto lo stesso Marchionne presentando il suo piano industriale) e l’Asia avrà una priorità anche rispetto all’Europa dove Fca resta molto debole.

I nemici di Marchionne lo hanno messo alla gogna perché ha abbandonato l’Italia, in realtà il manager dal maglioncino nero ha ristrutturato in modo radicale, anche brusco, la produzione italiana spostandola su un segmento di mercato a più alto valore aggiunto e assumendo operai mentre altri licenziavano. L’Italia produce meno, ma meglio, monta meno vetture, ma si è specializzata in componenti sofisticate, ha ritrovato nella progettazione nel design i suoi punti di forza. E scusate se è poco. Manley proseguirà su questa strada? C’è da dubitarne.

Il piano industriale presentato da Marchionne, la sua eredità, prevede l’abbandono di alcune produzioni e di marchi Fiat che hanno fatto il loro tempo (praticamente resterà solo la 500). Ma vuole anche puntare sulla Maserati e sull’Alfa Romeo. Vedremo se verrà confermato, anche perché finora non ha ancora preso forma.

Il mandato chiave del nuovo capo azienda riguarderà senza dubbio l’alleanza, il matrimonio, la fusione o comunque la si voglia presentare, con un gruppo più forte. Perché la Fca è ancora troppo grande per essere gestita come una impresa di nicchia e troppo piccola (all’ottavo posto mondiale) per vivere in splendida solitudine. Vedremo come e quando si realizzerà l’intesa e soprattutto con chi. Se ci saranno sovrapposizioni e ridondanze il che significa chiudere stabilimenti e licenziare operai, se l’Italia diventerà l’anello debole della nuova catena.

Più chiara sembra la strategia di Exor. La Ferrari, ormai, marcia da sola con un valore di borsa (24 miliardi di euro) di poco inferiore a quello dell’intera Fca (26 miliardi). È stato scelto Mike Manley, un manager che viene dalla Philip Morris, e anche questo è un segnale, perché attorno al cavallino rampante dovrà coagularsi il polo del lusso che John Elkann vorrebbe far nascere. Exor, così, potrebbe trasformarsi in una conglomerata finanziaria (industria, assicurazioni, marketing, editoria) senza dipendere più da un settore come l’auto, esposto come pochi agli alti e bassi della congiuntura e divoratore di risorse per gli ingenti investimenti che richiede. Il passaggio all’automobile 4.0 (elettrica, a pilota automatico, volante e quel che sarà) si presenta già come un bagno di sangue per chi non possiede la leva finanziaria adeguata.

A queste trasformazioni strutturali non si può rispondere con i dazi come se fosse il riso cambogiano (ammesso che siano giusti anche in quel caso). La retorica populista impallidisce e scompare, anche quella di Donald Trump che con Marchionne aveva stabilito un buon feeling perché la Chrysler aveva assunto anche operai americani. L’onda della tecnologia è ben più lunga e robusta di quella gialloverde.

 

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