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Fiat

Il Sole folgora gli Agnelli sugli aiuti pubblici alla Fiat

Secondo una ricostruzione di Paolo Bricco sul Sole 24 Ore, Fiat ha ricevuto molto più di 220 miliardi di euro in finanziamenti pubblici. Ma la cifra reale probabilmente non si scoprirà mai: ecco perché.

 

I 220 miliardi di euro in finanziamenti che la Fiat, secondo un’analisi di Federcontribuenti, avrebbe ricevuto dallo stato italiano dal 1975 a oggi – tra casse integrazioni, prepensionamenti e contributi vari – sono in realtà “molti di più”. Lo ha scritto sul Sole 24 Ore Paolo Bricco, giornalista esperto di storia industriale italiana, facendo notare come le cifre esatte del sostegno pubblico alla casa automobilistica fondata da Giovanni Agnelli probabilmente non si conosceranno mai. Il motivo, secondo Bricco, risiede nel fatto che

un Paese profondamente sussidiato nelle sue imprese ha cancellato le tracce su questo aspetto specifico della sua autobiografia come nazione: è impossibile conoscere i veri numeri sugli incentivi alla ricerca e alla innovazione e soprattutto sono una sorta di segreto di Stato i veri numeri dei pensionamenti e dei prepensionamenti con cui l’industria privata (non solo la Fiat) e l’industria pubblica si sono ristrutturate a spese del bilancio dell’Inps negli anni Novanta mandando a casa in pensione milioni di (allora) quarantottenni-cinquantenni-cinquantaduenni.

Il giornalista passa poi a ricostruire i passaggi che hanno portato Fiat, prima trasformatasi in Fca e poi in Stellantis, a ridurre la sua presenza manifatturiera in Italia.

L’ACQUISIZIONE DI CHRYSLER E LA PERDITA DEL BARICENTRO ITALIANO

La storia comincia nel 2004 con l’arrivo di Sergio Marchionne come amministratore delegato di una società che, nel giro di cinque anni, passa da una situazione di perdita di 2 milioni di euro al giorno all’acquisizione di una delle più importanti (benché malridotta, al tempo) case automobilistiche statunitensi, la Chrysler. Proprio a quell’operazione Bricco fa risalire sia la disomogeneità del profilo dell’azienda, sia la perdita del baricentro italiano, che si divide piuttosto tra Londra (“per la migliore fiscalità”) e Amsterdam (“per i vantaggi asimmetrici assegnati a chi controlla le società attraverso il voto plurimo”). Oggi Stellantis è formalmente una naamloze vennootschap con sede legale nei Paesi Bassi.

I FALLIMENTI DI FABBRICA ITALIA E DEL POLO DEL LUSSO

Oltre all’organizzazione giuridica, il disimpegno produttivo di Fca dall’Italia ha le sue radici nel piano Fabbrica Italia del 2010, quello che a detta di Marchionne sarebbe dovuto essere “il più straordinario piano industriale che il nostro Paese abbia mai avuto” ma che viene ritirato dopo appena un anno e mezzo. Nel 2016 viene annunciato il “polo del lusso” per la produzione in Italia di automobili paragonabili ai modelli di Audi e Mercedes, ma nemmeno quello va bene.

IL SUPERDIVIDENDO PER MAGNETI MARELLI

A questo punto, scrive Bricco, “un pezzo alla volta inizia a ridursi la base manifatturiera italiana”. Accade infatti nel 2018 che “la Fca vende Magneti Marelli – l’ultima struttura tecnologica buona che aveva in pancia in Italia – ai giapponesi di Calsonic, per la cifra – molto alta – di 6,2 miliardi di euro”. Una grossa parte di questi soldi esce però da Fca perché nel 2019 gli azionisti si autoattribuiscono un ricco dividendo da 2 miliardi.

STELLANTIS E LA DIREZIONE FRANCESE

Nel 2021 nasce Stellantis dalla fusione di Fca con il gruppo francese Psa. La dirigenza è sbilanciata a favore della Francia, spiega Bricco, perché l’amministratore delegato Carlos Tavares, portoghese, è un ex-dirigente di Renault. “I centri direzionali sono attratti da Parigi. Negli ultimi due anni sarebbe bastato chiedere ai componentisti italiani dove venivano – dove vengono – decise le commesse del gruppo. Da subito Tavares dice agli analisti che le fabbriche italiane sono troppe e meno efficienti di quelle francesi”.

– Leggi anche: Stellantis prende in giro l’Italia e il governo Meloni

PERCHÉ IL SOLE PICCHIA LA FIAT?

Qualcuno potrebbe essere rimasto colpito dal fatto che Il Sole 24 Ore, giornale di proprietà di Confindustria, abbia ospitato un articolo così duro verso una delle principali aziende italiane, controllata da una delle più importanti famiglie di imprenditori italiani. Ma Fiat non è più un’associata di Confindustria già dai tempi di Fca: un fatto, questo, che potrebbe aver garantito al quotidiano maggiori possibilità di critica.

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