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Chip, tutti gli effetti del nuovo blocco Usa alla Cina

Gli Stati Uniti hanno annunciato un nuovo piano di restrizioni alle vendite di chip avanzati in Cina. Ecco fatti, contesto, previsioni e commenti

 

Venerdì gli Stati Uniti hanno annunciato un nuovo pacchetto di restrizioni alla vendita di tecnologie per i semiconduttori in Cina. L’obiettivo di Washington è impedire a Pechino – la sua grande rivale geopolitica – di accedere a capacità, macchinari e componenti vari per la produzione di microchip, frenandone di conseguenza lo sviluppo economico e l’innovazione militare.

IL CONTRASTO DELL’APPARATO MILITARE CINESE

Il pacchetto di restrizioni è stato emesso dal dipartimento del Commercio. Il sottosegretario per l’industria e la sicurezza, Alan Estevez, ha spiegato che il suo dicastero sta lavorando per impedire alle forze armate cinesi di acquisire tecnologie impiegabili per scopi militari.

I supercomputer, ad esempio, consentono di testare armi nucleari, di manovrare missili ipersonici e di far funzionare sistemi di sorveglianza di massa. Per funzionare, però, questi elaboratori hanno bisogno di semiconduttori avanzati: gli stessi che l’amministrazione di Joe Biden vuole evitare che finiscano nelle mani di Pechino.

REPLICARE LA “GUERRA” A HUAWEI

Il New York Times ha scritto che le nuove regole del dipartimento del Commercio rappresentano il più ampio piano di controllo delle esportazioni emesso dagli Stati Uniti nell’ultimo decennio. Nella sostanza, non ci sono grosse differenze con le limitazioni stabilite dalla precedente amministrazione di Donald Trump contro la compagnia tecnologica Huawei. Ma le ultime restrizioni sono molto più vaste per portata, perché toccano decine di aziende cinesi. E sembrano essere, inoltre, sostenute da una politica strutturata per l’interruzione delle forniture di tecnologie avanzate alla Cina, volta a stroncarne le (nascenti) capacità manifatturiere di chip complessi.

– Leggi anche: Ecco il piano di Biden per frenare le vendite di chip alla Cina

Le aziende, infatti, non potranno più vendere in Cina microchip per il computing avanzato, macchinari per la manifattura di chip e altri prodotti americani simili, a meno che non ottengano – ma sembra improbabile – delle licenze speciali.

COM’È MESSA LA CINA

Il governo cinese ha investito parecchio nello sviluppo dell’industria nazionale dei semiconduttori, ma rimane indietro agli Stati Uniti, a Taiwan e alla Corea del sud per quanto riguarda la produzione di chip avanzati. È un problema per i piani digitali di Pechino, perché l’industria domestica dell’intelligenza artificiale, ad esempio – un campo in cui il paese è ben posizionato -, ha bisogno di microchip high-tech che i produttori cinesi non riescono a fornirle.

Il settore, di conseguenza, è perlopiù dipendente dagli acquisti di componenti dall’estero, ma ora potrebbe avere difficoltà a procurarseli: gli Stati Uniti hanno imposto infatti grossi limiti all’export in Cina di unità di elaborazione grafica (circuiti necessari all’intelligenza artificiale, appunto), di semiconduttori per i supercomputer e di macchinari per la produzione di chip logici e di memoria.

Leggi anche: Ecco gli aiuti di Stato Usa per la produzione di microchip

Le restrizioni non riguardano solo le aziende con sede negli Stati Uniti, ma tutte quelle – a prescindere dalla posizione nel mondo: un concetto noto come foreign direct product rule – che vendono chip per l’intelligenza artificiale e il supercomputing contenenti tecnologie americane oppure realizzati con software e strumenti americani.

LE AZIENDE CINESI COLPITE

Tra le aziende cinesi che verranno maggiormente danneggiate dalle restrizioni americane ci sono – secondo il New York Times – quelle che si occupano di intelligenza artificiale e che quindi dipendono dalle unità di elaborazione grafica, come SenseTime e ByteDance (la società che possiede TikTok). Ma anche le imprese manifatturiere di microchip che hanno bisogno dei macchinari stranieri, come SMIC, Yangtze Memory e ChangXin Memory.

CONTRACCOLPO PER GLI STATI UNITI?

D’altra parte, il piano dell’amministrazione Biden potrebbe danneggiare anche le stesse aziende americane, che hanno proprio nella Cina un mercato fondamentale. Sostengono – queste imprese – che le vendite nella Repubblica popolare garantiscono loro le entrate necessarie a finanziare gli investimenti in ricerca e sviluppo; sprovviste di abbastanza capitali da reinvestire nell’innovazione, potrebbero allora non riuscire a mantenersi competitive e all’avanguardia rispetto alla concorrenza straniera.

Di recente il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan ha dichiarato che l’obiettivo degli Stati Uniti è esattamente quello di “mantenere un vantaggio più ampio possibile” sulle tecnologie critiche “come i chip logici e di memoria avanzati”.

L’ANALISI DI ARESU

Alessandro Aresu, analista geopolitico e autore di Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina, ha spiegato su Twitter che “uno degli attori più importanti per leggere oggi la competizione USA/Cina è il Bureau of Industry and Security [BIS, ndr] del Dipartimento del Commercio. Il Dipartimento del Commercio ha un ruolo di primo piano nel controllo delle esportazioni e nelle sanzioni commerciali. Tale ruolo ha una lunga storia, non solo nel sistema internazionale ma anche nei provvedimenti di guerra economica USA (Defense Production Act del 1950)”.

“Nella politica USA”, prosegue Aresu, “oltre alla partecipazione ad accordi multilaterali sul controllo delle esportazioni (tra cui il cruciale Accordo di Wassenaar), vi sono provvedimenti interni sugli ‘interessi della sicurezza nazionale e di politica estera’. L’espressione ‘interessi della sicurezza nazionale e di politica estera’ si allarga con l’intensità dello sviluppo tecnologico e della competizione con Pechino, che porta un uso approfondito delle ‘liste’ e delle ‘autorizzazioni’ del BIS. Ma cosa sono queste liste?”.

“In sintesi”, spiega, “l’inserimento di un’impresa nelle liste blocca i normali flussi commerciali: le imprese USA per le transazioni devono avere autorizzazione governativa, e in molti casi (punto importante) ciò si applica anche a altre imprese che usano tecnologia e componenti USA. Il caso più rilevante (2019/2020) è Huawei: il suo inserimento nella lista colpisce la traiettoria dell’azienda ma impedisce anche (sul piano tecnico, non solo politico) le sue transazioni sui chip con TSMC di Taiwan, per svariati miliardi”.

“La storia dell’ultimo decennio”, dunque, “può essere letta attraverso decisioni del BIS (e del CFIUS) che rispondono a pratiche commerciali e tecnologiche di Pechino (enormi sussidi, stretti rapporti militari-civili), e poi CHIPS Act e Inflation Reduction Act come contrattacco USA. Di particolare interesse per gli USA è la traiettoria cinese sui semiconduttori, maggiore voce delle importazioni di Pechino, ambito su cui la Cina vuole scalare da decenni le posizioni tecnologiche, all’interno dell’industria più complessa e avanzata del pianeta”.

Secondo Aresu, “l’azione più recente mostra l’attenzione degli USA sugli sviluppi cinesi dell’intelligenza artificiale che, come ogni cosa della nostra vita digitale, si basa sui chip. Quindi la capacità attuale e prospettica di calcolo e sorveglianza cinese richiede alcuni componenti. Quest’estate avvengono restrizioni sugli elementi più pregiati, prodotti da AMD e Nvidia, ma le decisioni più recenti del BIS sono molto più pesanti e variegate, sia a livello settoriale (supercomputer ed end use, manifattura) che per il funzionamento delle liste. Da un lato vengono aggiunte nuove imprese alle liste. La più celebre è YTMC di Wuhan, che ha scalato le posizioni nelle memorie e che ha suscitato preoccupazioni di sicurezza nazionale per la sua collaborazione con Apple. Poi ci sono anche alcune imprese e attività di ricerca nella chimica: un aspetto che è sempre molto importante considerare perché il ruolo della chimica nei semiconduttori e nelle batterie è forse la cosa più sottovalutata di queste filiere. Inoltre, l’ultimo provvedimento lega l’inserimento delle società cinesi nelle liste alla ‘mancanza di cooperazione’: il BIS chiede ai cinesi di vedere chi sono i clienti e le strategie delle aziende, per verificare la fusione militare-civile e conoscere la supply chain”.

“Questi provvedimenti sono interessanti”, conclude l’esperto, “non solo per l’escalation della guerra economica e tecnologica ma perché hanno effetti su tutti gli altri Paesi (visto che le supply chain si adattano, con resistenze e collaborazioni) e sulla stessa traiettoria cinese. La Cina, infatti, come ha sempre fatto, cercherà comunque, anche se con frustrazione, nuove traiettorie creative per perseguire i suoi obiettivi, provando a superare gli (enormi) ostacoli dei controlli alle esportazioni e delle liste. La partita non finisce mai. Questo ha effetti indiretti: magari i cinesi vanno in altri segmenti di specializzazione, fanno ricerca su qualcosa prima sottovalutato. Con effetti anche su altri concorrenti. Oppure, messi alle strette, decideranno addirittura di ‘cooperare’ su qualcosa”.

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