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Berlino

Tutte le meraviglie serbe della Vojvodina

In nessun altro posto in Europa, neppure in Svizzera, il riconoscimento ufficiale di un’identità multi-nazionale è tanto avanti quanto in Vojvodina. L'articolo di Alessandro Napoli.

Stretta fra tra Danubio e Tibisco, in piena Europa Centrale ma alle porte dell’Europa Sudorientale, la Vojvodina (Vajdaság in ungherese) è soprattutto una grande pianura dalla quale, tranne che sotto la collina boscosa della Fruška Gora, nella zona di Titel o nelle giornate terse d’inverno dalle parti di Vršac, non si intravvede mai il profilo di una montagna. E neppure di una collina. Rari anche gli alberi, tranne che lungo gli argini dei fiumi.

Si dice che se si sale in cima ad una pianta di girasole, lo sguardo può spaziare senza ostacoli persino oltre l’orizzonte. Vojvodina significa anche, soprattutto nella Bačka, terra nera quanto il cioccolato fondente, fertile quanto i contadini di tutto il mondo si sognano la notte. Significa oltre due decine di migliaia di chilometri quadrati coltivati in ogni millimetro prevalentemente a seminativi, cosa che non costringe i contadini a lavorare ogni giorno, e quindi non obbliga a vivere sul podere, ma incoraggia a vivere in villaggi.

AGLI ORDINI DELL’IMPERATRICE MARIA TERESA

Il villaggio tipico della Vojvodina è di solito formato da una sola strada lunga un paio di chilometri ai fianchi della quale si allineano le case. Dietro le case un orto, un frutteto e un cortile dove trovi oche, galline, tacchini e maiali. Poche e rare le trasversali. È l’esempio di quell’insediamento umano tipico del Centro Europa che i tedeschi chiamano Straßendorf (letteralmente, villaggio strada), ma che in altre contrade della regione è scomparso. Le case, allineate lungo la strada non sono però costruite sul ciglio, ma separate da questa da una fascia a verde, che ogni proprietario frontista deve mantenere a propria cura e spesa, falciando l’erba nella bella stagione e spalando la neve d’inverno. “Ordine” dell’imperatrice d’Austria Maria Teresa, la sovrana che fece del regolato assetto del territorio il motto del suo governo, lasciando in eredità un’istituzione di cruciale importanza per assicurare certezza nei diritti di proprietà: il catasto. L’ordine è in vigore ancora e il catasto risponde bene alle ragioni per cui fu istituito.

La Vojvodina, che potremmo tradurre in italiano con “il ducato”, si sviluppa su un territorio di 21.506 chilometri quadrati, nel Nord della Serbia, al confine con la Slavonia (Croazia) a Ovest, l’Ungheria della Grande pianura meridionale a Nord, il Banato romeno a Est, l’area metropolitana di Belgrado a Sud. Ci abitano poco meno di due milioni di persone. Nell’ambito della Repubblica Serba ha status di provincia autonoma (Autonomna Pokrajna), significa che ha un certo grado di libertà nella gestione delle proprie risorse e una propria assemblea eletta a suffragio universale diretto (Skupština Autonomne Pokrajine Vojvodine, in ungherese Vajdaság Autonóm Tartomány Képviselőháza).

UN CROGIOLO DI IDENTITÀ

In nessun altro posto in Europa, neppure in Svizzera, il riconoscimento ufficiale di un’identità multi-nazionale è tanto avanti quanto qui: venticinque gruppi etnici (nazionalità) riconosciuti e sei lingue ufficiali: serbo, ungherese, slovacco, croato, romeno, ruteno. Da secoli la gente convive pacificamente, magari dividendosi il lavoro: leggendarie le capacità artigianali di ungheresi e di croati, quelle dei serbi in agricoltura, la meticolosità “protestante” degli slovacchi in tutto quello che fanno. Le chiese ortodosse dei serbi stanno fianco a fianco a quelle cattoliche o riformate degli ungheresi, a quelle cattoliche dei croati, a quelle luterane degli slovacchi e così via. Difficile distinguere dall’esterno e a primo colpo le une dalle altre. In un paio di decine di migliaia di chilometri quadrati la Vojvodina sintetizza l’intera Europa Centrale, con tutta la sua biodiversità culturale e le sue contraddizioni.

Al di là dei prevalenti serbi e ungheresi, altri due gruppi etnici (“nazionalità”) furono importantissimi nella storia del “ducato” e, a dispetto dell’essersi ridotti a poco quanto a consistenza, vanno ricordati per tutto quello che hanno lasciato, di materiale e di immateriale, in questo lembo del Continente che è Europa Centrale ma apre le porte dei Balcani. Il primo è quello dei tedeschi (švabi), il secondo quello degli ebrei.

Gli švabi arrivarono soprattutto nel Settecento, quando la Vojvodina era “confine militare” dell’Impero asburgico, per assicurarne la difesa dai turchi e ripopolarla in cambio di terra da coltivare. Se ne andarono in grande maggioranza alla fine della seconda grande guerra, lasciando le loro case e le loro terre nelle mani dello Stato comunista che le consegnò ai kolonisti di origine montenegrina, in verità inizialmente poco a loro agio con usi e costumi di un luogo che sentivano troppo europeo.

DONNE CON LE GONNE

“Qui le donne vanno in giro in gonna in bicicletta”, così  scriveva un certo Nikola arrivato da un villaggio vicino Podgorica, in una lettera che mi sono trovato fra le mani, mandata a un suo cugino. Ma poi riuscirono a integrarsi, come accade a tutti coloro che finiscono in Vojvodina. Ne sono rimasti in pochi di švabi, anche se dato il carattere di terra melting pot della Vojvodina, il numero di cittadini del “ducato” che hanno sangue germanico nelle vene è molto meno trascurabile di quello di quanti si dichiarano tedeschi nei censimenti. D’altra parte, il numero di parole tedesche ricevute in eredità nelle diverse lingue che si parlano in Vojvodina è difficile da contare ma molto significativo e l’impronta ‘tedesca’ la si ritrova in tanti particolari degli edifici rurali

Fino alla seconda grande guerra gli ebrei in Vojvodina contavano fra il 5% e il 6% della popolazione delle città. Erano l’armatura della borghesia, specialmente se per borghesia intendiamo proprio i ceti del borgo, della città, contrapposti a quelli delle campagne: avvocati, architetti, medici, farmacisti e anche commercianti. La monarchia asburgica aveva varato una legislazione molto liberale nei loro confronti, assolutamente non paragonabile con quella in vigore nell’impero russo. Sapeva che senza di loro la società non avrebbe funzionato come avrebbe dovuto.

Il nuovo regno che dopo la fine della prima guerra mondiale in Vojvodina successe alla duplice monarchia seguì la stessa linea del suo proprio predecessore e agli ebrei riconobbe lo status di cittadini come gli altri, anche tenendo conto di quanto molti giovani ebrei avevano fatto per mobilitare l’opinione pubblica contro gli Imperi Centrali. Oggi sono rimasti in poche centinaia, e a me fa impressione notare come un capolavoro della “Secessione” ungherese come la Sinagoga di Novi Sad (capitale della Vojvodina, peraltro) non sia più un luogo di culto ma una sala per concerti. Meglio così, ci sono posti al mondo dove le sorti dei luoghi di culto sono state davvero ben molto peggiori.

SI PUNTA SULLE TECNOLOGIE DELL’INFORMAZIONE

La Vojvodina ha un paesaggio mitteleuropeo, e le sue città e villaggi hanno un aspetto mitteleuropeo. È anche, dopo Belgrado, la provincia più prospera della Serbia, e anche per questo destinazione di movimenti migratori provenienti dal resto del paese e da altri territori della ex-Jugoslavia. Ma non è solo agricoltura (comunque prospera e centro-europea, non stentata e difficile come nei Balcani e nel Mediterraneo). È stata industriale e oggi è all’avanguardia in tutto il bacino danubiano per quanto riguarda le tecnologie dell’informazione e ospita stabilimenti di componentistica di grande importanza per l’automotive tedesca. Dalla sua ha (e avrà) tanti vantaggi comparati, al di sopra di tutti la sua posizione geografica e geo-culturale di crocevia fra Nord e Sud e fra Ovest e Est dell’Europa.

Ma nulla vale per capire la Vojvodina quanto sedersi su una riva fangosa fra i pioppi per guardare scorrere il Tibisco o il Danubio in una giornata di sole, passando il tempo a meditare sul significato di quello che ti circonda, oppure incrociare su uno dei fiumi con un piccolo cabinato a motore e poi fermarsi per pescare, magari una carpa o un luccio da far cucinare nella più vicina csárda dove hai un amico cuoco.

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