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Draghi Parlamento

Perché il Pnrr è una sfida politica più importante e difficile di quella del Quirinale

L’intervento di Marco Mayer, docente al Master in Cybersecurity Luiss, già consigliere del ministro dell’Interno per la Cybersicurezza (2017-2018).

 

Con tutto il rispetto per il fondamentale ruolo di garanzia che la nostra democrazia costituzionale affida al Presidente della Repubblica, trovo un po’ esagerata l’attenzione spasmodica con cui in questi giorni media e partiti concentrano la loro attenzione sulla partita del Quirinale a tre mesi dalla scadenza.

Prendiamo i due più giovani candidati di cui parlano i giornali, Marta Cartabia (classe 1963) e Pier Ferdinando Casini (classe 1955). Ambedue provengono dal mondo cattolico e si sono laureati in Giurisprudenza. Mentre Marta Cartabia – allieva di Valerio Onida – ha scelto la carriera universitaria e l’impegno nella Corte Costituzionale sino a diventarne Presidente, Casini sin da giovanissimo si è impegnato in politica (prima a fianco di Antonio Bisaglia e poi di Arnaldo Forlani) sino ad uscire dal partito ex Dc per i suoi noti contrasti con Mino Martinazzoli.

Pongo ai lettori la seguente domanda con la brutalità con cui la porrebbe un giornalista della BBC nella rubrica Hard Talk: “Premesso che sono tutti due ottimi candidati per il Quirinale mi chiedo e vi chiedo: l’elezione dell’una o dell’altro cambierebbe davvero molto nel futuro dell’Italia?”

La mia risposta è no. E lo stesso discorso vale per la maggioranza delle altre personalità o “riserve della Repubblica” di cui si parla come candidati al Colle. Ogni giorno la lista si allunga con l’aggiunta di nomi nuovi, Violante ieri e Francesco Rutelli oggi.

Come avete capito, per me conta la qualità del profilo politico e istituzionale più del singolo nome. Non condivido, infatti, l’opinione di Francesco Cossiga per cui “ogni candidato al Quirinale sottintende un disegno politico, che il presidente eventualmente eletto si impegna a favorire”. L’esperienza pluridecennale dimostra che è una speranza dei “kingmaker”, ma che non è affatto detto che i presidenti eletti si muovano in sintonia con i disegni dei registi che hanno lavorato per portare a termine la loro elezione.

Qual è la conclusione a cui voglio arrivare? I cittadini italiani dovrebbe aver ben chiaro che è molto più agevole individuare una buona e ristretta rosa di candidati per il Quirinale che attuare entro il 2026 la grande riforma dell’Italia che dovrebbe (il condizionale purtroppo è d’obbligo) essere innescata dagli oltre 200 miliardi europei del PNRR.

Le riforme e i progetti connessi a Next Generation EU costituiranno già nei prossimi mesi una immensa miniera di notizie per le cronache nazionali e locali; alcuni aspetti meriterebbero inchieste di giornalismo investigativo.

In articoli precedenti, e qualche mese fa in audizione alla commissione Esteri della Camera, ho accennato ad alcune implicazioni geopolitiche del Pnrr. Sarebbe davvero un controsenso che le imprese cinesi fossero tra i destinatari finali (per via diretta o indiretta via supply chain) dei miliardi per la transizione digitale (come è accaduto sinora con Consip e altre migliaia di stazioni pubbliche appaltanti). La presenza cinese nella transizione digitale deve essere mitigata perché nell’ultimo decennio (ed in particolare dal 2015 ad oggi) esse ha messo radici troppo profonde nel nostro paese (da Wind3 a Alibaba, da Huwaei a ZTE, da HickVision a Lenovo, da Xiaomi a Honor e ad altre numerose nuove sottomarche).

In proposito, sarà interessante verificare se nei capitoli delle prossime gare il ministro Vittorio Colao – d’intesa con la Farnesina – riuscirà a tener conto delle preoccupazioni del Copasir. Non é facile resistere alle sirene del partito trasversale filo cinese, che preme da mesi sulla classe politica italiana.

Una sfida ancora più difficile è in politica interna. Una recente indagine di McKinsey ha messo in rilevo due aspetti cruciali. Il primo è che non può esserci una trasformazione digitale utile e sicura se non è preceduta da una rivoluzione organizzativa. In Italia oggi la pubblica amministrazione è divisa verticalmente: tra dicasteri e tra direzioni ministeriali compartimentate; tra centro e regioni; tra regioni, ASL, comuni e società miste. In una realtà così parcellizzata (complice originaria la legge Bassanini) “digitalizzare l’esistente” porterebbe ad un peggioramento delle prestazioni pubbliche sprecando una occasione storica.

Il secondo aspetto che McKinsey mette in evidenza è il fattore umano. Prima ancora che di professionalità c’è un problema di mentalità. I dirigenti pubblici non potranno più dedicare la maggior parte delle loro energie a procedure giuridico-amministrative tese a tutelare il loro operato da rischi giudiziari e/o a presidiare i confini delle loro sfere di competenza e potere.

In futuro nel pubblico e nel privato il successo e la produttività dipenderanno da altri fattori: velocità di decisione, capacità di connessione e collaborazione orizzontale, flessibilità, capacità di adattamento e cybersecurity.

Non c’è niente di più difficile che cambiare il modo di pensare. L’auspicio è che i media scavino in profondità alla ricerca delle radici strutturali e politiche dell’inefficienza pubblica italiana che – in assenza della politica – potrebbe compromettere l’esito del PNRR. Non basta qualche controllo in più sui “furbetti del cartellino”; e il compito di “fare debito buono con gli eurobond” non può spettare soltanto al Presidente del Consiglio e al MEF.

L’aria non è delle migliori. Mario Monti, Paolo Mieli e tanti altri anche dall’estero si stanno mettendo di traverso. I partiti appaiono paralizzati dalle lotte intestine. Mi tornano in mente le mie esperienze sul campo nei conflitti etnopolitici nei Balcani negli anni novanta. Ed è quasi impossibile mediare tra entità profondamente divise al loro interno perché le lotte fratricide bloccano ogni tentativo di dialogo e mediazione costruttiva.

Non fanno bene all’attuale maggioranza né le tensioni esplicite tra Salvini e Giorgetti nella Lega né quelle quelle sotterranee tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio. Contemporaneamente il PD appare diviso tra chi vede Draghi come una parentesi e chi, invece, vorrebbe proseguire il cammino delle riforme con Draghi al governo anche nei prossimi anni; ovviamente con una maggioranza più omogenea e coesa dell’attuale. Forza Italia è in mezzo al guado. Non resta che augurarci che prevalga l’anima liberale ed europeista, quella che non ha niente da spartire con Victor Orban o con i populisti polacchi. Vedremo.

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