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Raggi Virginia

Mafia capitale non era mafia. Raggi e Pignatone affranti

L’esito del processo su quella che Pignatone (ora in Vaticano) chiamava Mafia Capitale dovrebbe ispirare fiducia nella Giustizia, con la maiuscola, che alla fine riesce a ristabilire una certa differenza tra la fiction e la realtà, per quanto anch’essa assai grave. I Graffi di Damato

 

Tra i rifiuti a Roma, in condizioni di ormai cronica emergenza, è dunque finita dopo la sentenza definitiva della Cassazione la “Mafia Capitale”, con le virgolette tutte al loro posto, scoperta e fatta processare dalla Procura dei tempi di Giuseppe Pignatone. Il quale, già smentito dalla sentenza di primo grado rovesciata però in appello, non avrà accolto bene la notizia — penso — nella nuova postazione di capo del tribunale del Vaticano. Dove è approdato il 3 ottobre scorso per volontà personale del Papa, spero non nella presunzione, sospetto e quant’altro che la mafia si sia affacciata anche oltre le Mura, visto ciò che vi accade da qualche tempo e che ha procurato al Pontefice un bel po’ di delusioni e preoccupazioni.

Non hanno preso bene il verdetto della Cassazione, pur nel dovuto e dichiarato “rispetto” per il suo verdetto, neppure la sindaca di Roma Virginia Raggi e il presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra, accomunati dall’appartenenza al Movimento delle 5 Stelle e dalla convinzione che a Roma la mafia ci fosse stata davvero, con il Campidoglio costituitosi parte civile nel processo. Per i due pentastellati la delusione è stata doppia, avendo voluto accorrere insieme al processo a sentire il verdetto, prevedendolo evidentemente di tutt’altro segno.

La malavita romana è di natura diciamo così ordinaria, da associazione a delinquere, per la quale gli imputati si vedranno perciò ricalcolare, cioè ridurre, le pene che naturalmente meritano. È una consolazione modesta, d’accordo, come ha praticamente sostenuto nella sua imbarazzata reazione la sindaca Raggi. Che però è nella condizione, diciamo così, scomoda di essere riuscita a scalare il Campidoglio perché una parte almeno dei suoi elettori era stata autorizzata dall’autorità giudiziaria a sospettare che i suoi predecessori avessero lasciato devastare il Comune anche dalla mafia, e non solo dalla criminalità comune. O no? La sindaca fu aiutata a vincere la sua partita, di cui i romani stanno in  prevalenza non godendo ma subendo gli effetti, da quella “fiction”, come giustamente l’ha definita nel titolo di prima pagina Il Foglio, che si è rivelata “Mafia Capitale”.

L’esito del processo dovrebbe ispirare fiducia nella Giustizia, con la maiuscola, che alla fine riesce a ristabilire una certa differenza tra la fiction, appunto, e la realtà, per quanto anch’essa assai grave, per carità. Eppure c’è qualcosa che lascia ugualmente l’amaro in bocca. È ciò che politicamente è o può essere accaduto fra il momento dell’accusa e il momento del verdetto finale, e cui non c’è sentenza che possa rimediare. Ciò riporta al problema del rapporto fra la giustizia e la politica, o fra la giustizia e l’opinione pubblica: quella che recentemente, parlando d’altro e più in alto, e ispirandosi al Manzoni dei Promessi Sposi, il presidente della Repubblica ha definito “il senso comune” quando prende ingiustamente e rovinosamente il posto del “buon senso”.

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