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Guerra Ucraina

Il circo Barnum dell’informazione sulla guerra contro l’Ucraina

Il Bloc Notes di Michele Magno

 

Le fake news sono sempre esistite: dalla Donazione di Costantino ai Protocolli dei Savi di Sion, affondano le loro radici nella storia. Nella notte dei tempi, perfino, nella forma del “serpente astuto” di cui parla il Libro della Genesi. “La falsità spicca il volo e la verità la segue zoppicando”, recita un aforisma di Jonathan Swift. Tre secoli fa era un’iperbole, oggi invece fotografa perfettamente quel circo Barnum dell’informazione sulla guerra contro l’Ucraina costituita, con un paio di lodevoli eccezioni, dai salotti televisivi nazionali. Ma i talk show sul piccolo schermo sono la punta dell’iceberg di un fenomeno ben più vasto, come abbiamo osservato anche durante la pandemia. Nella Rete ci sono quasi due miliardi di siti web e più della metà della popolazione mondiale naviga su Internet: ogni secondo vengono inviati oltre due milioni e mezzo di messaggi di posta elettronica e vengono effettuate settantamila ricerche su Google.

Le fake news invadono le pagine Internet, si diffondono come virus nel web, e spesso riescono a distorcere i fatti e occultare come stanno realmente le cose. Complice il “libero arbitrio” del web, la loro manipolazione trova così un terreno fertile e si diffonde a macchia d’olio. Come si possono sconfiggere, allora, i professionisti della bugia? Chi è favorevole a provvedimenti restrittivi della libertà di comunicazione, con il nobile scopo di arginare il falso, dovrebbe sapere che così si rischia però di mettere a tacere anche il vero. Meglio, quindi, adottare il vecchio principio del “lasciar crescere la gramigna” perché con essa cresca anche il grano.

La verità infatti non deve temere più di tanto la diffusione della menzogna, poiché quest’ultima ha comunque bisogno di lei per vivere e prosperare. Lo spiega molto bene la tradizione, descrivendo il mentitore prigioniero dei suoi inganni. Se infatti ci sono molti modi di mentire, mentre la verità è una sola, ciascuno di quei modi contiene in sé il vero che può distruggerlo dall’interno. Ed è quanto normalmente dovrebbe fare un’opinione pubblica dallo spirito critico ben allenato, a patto che abbia voglia di mettere a tacere quelle che sono in definitiva le sue scimmie, o i suoi giullari: i “bullshitter” (in italiano, “cazzari”). Già, ma quella italiana, quella che si lascia abbindolare facilmente dai pacifisti à la carte e dai filoputiniani, ne ha davvero ha voglia? Dubito, ergo sum.

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Coniata dai moralisti francesi del Seicento, la locuzione “carattere nazionale” fa ingresso nella nostra letteratura con il Discorso sopra lo stato presente del costume degli Italiani di Giacomo Leopardi (1824). Ma prima che il grande poeta prendesse la penna per dirci in prosa, brutalmente, come siamo fatti, la descrizione del carattere dell’italiano aveva occupato l’ingegno di molti artisti europei e tenuto desto lo spirito di osservazione di una fitta schiera di viaggiatori che, in particolare nel secolo dei Lumi, giungevano nella nostra penisola col proposito di completare la propria formazione classica grazie alla formidabile esperienza del Grand Tour. Tuttavia, partiti con programmi culturali ambiziosi, spesso tornavano in patria con taccuini pieni di massime antropologiche non proprio benevole con il Bel Paese, come quella di Pierre-Jean Grosley: “L’Italie est le pays où le mot ‘furbo’ est éloge” (1764).

Dalle polemiche tardo-settecentesche sulla furbizia dei nostri antenati, precedute da quelle sull’etica della dissimulazione dell’uomo barocco, ai dibattiti ottocenteschi sull’individualismo e sull’assenza di senso civico degli italiani, fino al tema del trasformismo nelle sue varie declinazioni novecentesche: ne risulta una storia di discorsi che conoscono una impressionante produzione e circolazione di stereotipi sull’identità nazionale, alcuni dei quali vengono ricordati più avanti.

Giulio Bollati, nel suo saggio sul trasformismo di fine Ottocento (in L’italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, Einaudi, 1983), ha scritto che nelle intenzioni degli esponenti della sinistra storica, a partire dal suo inventore Agostino Depretis, il termine era “sinonimo di evoluzione” utilizzato per connotare in senso scientifico-progressista la richiesta di trasformare i partiti eliminando intanto la distinzione tra Destra e Sinistra, già indebolita e non di rado dimenticata nelle combinazioni parlamentari postunitarie. Il trasformismo era nato come equazione chimica: il passaggio da uno stato all’altro, dall’arcaicità al moderno, dal vecchio al nuovo. Ma si era rapidamente trasformato nell’opposto: immobilismo, consociazione di diversi solo apparenti, in realtà tenuti uniti dalla chiusura verso la società.

Da qui indifferenza agli schieramenti, interessi particolari di singoli capibastone scambiati con l’interesse generale, governi fragili e in mano a drappelli di deputati pronti a vendersi al miglior offerente, affarismo. “Per questa via – sostiene Bollati – il trasformismo assume definitivamente il significato peggiorativo che ha: distanza tra i propositi dichiarati e i comportamenti effettivi, abilità nel far propri temi e parole dell’avversario per svuotarli di significato, disponibilità a lasciarsi catturare, contrasti in pubblico e accordi in corridoio. Il trasformismo è apparenza, spettacolo, indifferenza al merito delle questioni. Il suo scopo è il potere in quanto tale”. Era ieri, ma sembra oggi.

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