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Tunisia

Come nascono gli stermini russi in Ucraina

La scelta da parte di Putin di utilizzare siberiani, ceceni o mercenari, dando loro il diritto all’assassinio di civili e alla distruzione sistematica di villaggi e quartieri, come avveniva nel Medio Evo, è figlia di un retroterra. Ecco quale. Il commento di Polillo

Ci sono voluti anni, ma alla fine la cultura della III Internazionale, o meglio di quel che resta, ha mostrato tutta la sua ferocia. Ideologia come come falsa coscienza per un verso. Dall’altro, il lato oscuro della forza: l’ipotesi di “sterminio di classe” (Ernest Nolte), quale replica, su scala allargata, dei lutti dell’epoca del “Terrore” della rivoluzione francese del 1793/94. Può sembrare un approccio fumoso, nella convinzione che Putin ormai sia “altro”, il che in parte è vero. Ma se si analizza il suo discorso del 21 febbraio, pronunciato subito prima l’invasione dell’Ucraina, le cose diventano più chiare.

In quell’occasione non si trattò soltanto di negare all’Ucraina la dignità di essere una Nazione. Semplice territorio della Grande madre Russia. Si riannodarono anche i fili con la più pura tradizione comunista. Non quella di Michail Gorbačëv o di Boris El’cin, di cui lo stesso Putin sarà debitore, ma andando più lontano nel tempo. Per risalire alle origini: Lenin e Stalin. Il primo considerato una sorta di piccolo sognatore. Voleva fare “concessioni ai nazionalisti che, a quel tempo, chiamava ‘indipendenti’”. Mentre Stalin era disponibile a concedere loro solo un minimo di autonomia amministrativa: semplici provincie del grande impero, che fu prima degli Zar, quindi del potere sovietico.

Quelle differenze non rimasero confinate nel microcosmo del potere bolscevico. Si riprodussero, come una metastasi, all’interno dei singoli partiti comunisti. In Italia, ad esempio, il contrasto tra Pietro Secchia e lo stesso Palmiro Togliatti rifletteva quella dissonanza, che trovava alimento nel modo in cui la rivoluzione d’ottobre, in Russia, si era sviluppata. In principio era ancora la II internazionale. I menscevichi. L’idea cioè che il socialismo potesse essere solo una fase terminale dello sviluppo capitalistico. Nel Manifesto del partito comunista, lo stesso Marx aveva parlato del compito storico della borghesia, ch’era quello di creare, grazie allo sviluppo delle forze produttive, le basi materiali per la nascita di una società storicamente superiore.

Nel duro scontro tra menscevichi e bolscevichi, alla fine era prevalsa l’idea di Lenin. La rivoluzione in Russia poteva aver luogo, anche se le basi dello sviluppo capitalistico del Paese erano talmente esili, da risultare quasi inesistenti. Ma dietro il ragionamento di Lenin, tutto centrato sul soggettivismo dell’azione, era soprattutto il retroterra populista della cultura russa. Quell’odio contro le società occidentali che i primi rivoluzionari della metà dell’800 avevano teorizzato nel nichilismo e sperimentato in atti terroristici, come quelli che avevano portato alla morte, a seguito di un attentato, dello Zar Alessandro II.

Dati questi presupposti lo scontro tra il movimento socialista – quello che ancora si rifaceva alla II. Internazionale – ed i comunisti non poteva che essere senza esclusione di colpi. Seppure a senso unico, considerata la veemenza con cui i primi furono attaccati. Per Lenin, Karl Kautsky, era principalmente un rinnegato. Per Stalin Nicolai Bucharin, i cui precetti economici illumineranno il cammino del grande sviluppo cinese, un nemico del popolo da mandare a morte. Possiamo allora meravigliarci della violenza con cui le truppe russe portano avanti il loro tentativo di conquista dell’Ucraina? La scelta da parte di Putin di utilizzare siberiani, ceceni o mercenari, dando loro il diritto all’assassinio di civili, allo stupro, al saccheggio oltre che alla distruzione sistematica di villaggi e quartieri, come avveniva nel Medio Evo, è figlia di questo retroterra.

Contrariamente a quanto scrivono nel loro appello “i corrispondenti di guerra” (1 aprile 2022) il problema non è la “supposta pazzia di Putin”, ma l’essenza di un potere oscuro, che, per definizione, non risponde dei suoi atti. E di conseguenza può imprigionare (15 anni) chi pronuncia, scrive, allude o semplicemente disegna la parola “guerra”. Che avvelena chi solo non accetta di chinarsi alla ragion di stato. Che invade, nel totale spregio di ogni regola internazionale, un Paese sovrano. Mettendolo a ferro e fuoco prima con l’obiettivo dichiarato di punire “nazisti e drogati”, quindi con la scusa insostenibile di proteggere cittadini russo-fili, dalla violenza di milizie irregolari.

Ha fatto impressione l’articolo di Timofey Sergetsev, su Ria Novosti, una delle più note agenzie di stampa russa, voce del regime. Del resto lo stesso autore é grande ammiratore di Putin. Parlando della “missione speciale”in Ucraina ha sostenuto che la vittoria delle truppe russe non è sufficiente, serve al contrario la denazificazione. Che “è necessaria quando una parte significativa del popolo – molto probabilmente la maggioranza – nella sua politica è stata dominata e attratta dal regime nazista. Cioè, quando l’ipotesi ‘le persone sono buone è il governo che è cattivo’ non funziona. Il riconoscimento di questo fatto è alla base della politica di denazificazione, di tutte le sue misure”. Tesi più che sufficiente per giustificare forme di genocidio.

Due gli elementi di riflessione. Anche in questo caso siamo nel campo dello “sterminio” dei presunti nazisti. Ora il regime ucraino, frutto di libere elezioni, tutto può essere, men che una derivazione del nazionalsocialismo di stampo tedesco. Vi è quindi un forte legame di continuità con le tesi di Ernest Nolte. In questo caso cambia l’aggettivazione, non il sostantivo. Ma evocare il pericolo nazista, da parte di Sergetsev, non fa che conservare quel legame perverso che storicamente ha caratterizzato le vicende della metà del novecento. Nazisti e fascisti da una parte, comunisti dall’altro, pronti a giustificarsi scambievolmente. Con un’ulteriore postilla.

La partecipazione russa nella seconda guerra mondiale non fu considerata dalla direzione bolscevica come espressione, seppure violenta, della lotta di classe. Del resto era difficile considerarla tale, data l’alleanza con le potenze occidentali, ma come Grande guerra patriottica. Di nuovo in nome di quella Santa madre Russia che li aveva portati a combattere duramente contro la II Internazionale ed eliminare dal proprio seno tutti coloro che non si riconoscevano nel potere assoluto di Stalin. Ed triste notare che a distanza di oltre 70 anni – Stalin morì nel 1953 – tutto ciò non sia cambiato. Con Putin la Russia è tornata indietro, rattrappita in sé, mentre la storia nel resto del mondo, ma soprattutto in quello socialista, si pensi alla Cina, andava avanti.

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