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Al Bano

Perché Al Bano (e non Amadeus) dovrebbe leggere il messaggio di Zelensky a Sanremo

L’intervento di Marco Mayer, ex consigliere per la cybersecurity del ministro dell’Interno (2017-18) e attuale docente al corso di perfezionamento Intelligence e Sicurezza Nazionale della Lumsa e al Master in Cybersecurity della Luiss.

Dalle ore 12 (ora locale) di oggi la Polonia ha chiuso la frontiere di Bobrowniki con la Belorussia. Si tratta di uno dei passaggi più frequentati fra i due stati: solo nel mese di gennaio sono entrati in Polonia dalla Bielorussia oltre 19mila vetture e 4345 camion, e sono uscite 22mila auto e 5929 camion.

Il ministro degli Interni polacco Mariusz Kaminski ha detto che questa ulteriore escalation è dovuta a “importanti motivi della sicurezza dello stato”.

La decisione del governo polacco è probabilmente la reazione alla condanna a otto anni del giornalista di origine polacca Andrzej Poczobut da parte di un tribunale bielorusso. Il reporter era stato arrestato nel marzo 2021 con l’accusa aver “attentato alla sicurezza nazionale, istigato odio verso comunità nazionali e religiose e riabilitato il nazismo”.

Per la Bielorussia la repressione dei giornalisti e dei blogger non è una novità. Basti pensare che già 23 anni fa – nel lontano 2000 – Amnesty International aveva diramato un rapporto urgente sulle misure repressive di giornalisti e dissidenti in Bielorussia.

Il regime di Lukashenko ha definito la decisione polacca sulla frontiera un atto catastrofico per la Bielorussia, e oggi pomeriggio l’incaricato d’affari dell’ambasciata della Polonia a Minsk è stato immediato convocato dal ministro degli Esteri.

La decisione di Varsavia tocca un aspetto cruciale nelle relazioni tra Unione europea e Russia, un aspetto che è rimasto un po’ in ombra nelle polemiche politiche che hanno provocato il mancato collegamento video di Zelensky a Sanremo.

A mio modesto avviso, Carlo Calenda, Matteo Salvini e Piersilvio Berlusconi hanno sottovalutato il fatto che la libertà di informazione negata nella Russia di Putin è una condizione sine qua non anche nella musica, in tutte le arti dello dello spettacolo e nell’intrattenimento.

Quando sul palco dell’Ariston è arrivato l’inno alla libertà di Pegah Moshir Pour, l’attivista italo-iraniana di 31 anni, nessun leader politico ha protestato. Perché allora due pesi e due misure? La libertà garantisce il diritto di parola di tutti, anche ai più incalliti estremisti di sinistra e di estrema destra.

Pegah Moshir Pour ha proposto al pubblico italiano le parole di una canzone che è diventata l’inno della ribellione del popolo iraniano, musicando i tweet dei ragazzi che hanno scritto per denunciare le libertà negate. Una canzone dove si ricorda che in Iran per poter ballare per strada si rischiano dieci anni di prigione, dove è proibito baciare e tenere per mano chi si ama e dove si può pagare con la vita il coraggio di togliersi il velo.

A proposito di libertà di informazione, ieri ho ascoltato in diretta il viceministro degli Esteri della Federazione russa Alexander Grushko mentre interveniva ad un interessante un seminario sulla militarizzazione del Baltico promosso dal celebre think thank Valdai Club, ideato anni fa dal presidente Vladimir Putin.

Suggerisco ai lettori di Startmag di ascoltare il suo discorso integrale in inglese (o in russo, per chi lo conosce).

La tesi principale sostenuta da Grushko è che dentro una visione politica fondata sulla distinzione tra democrazia e autocrazia non c’è alcuno spazio per l’Europa, perché ridotta a mero satellite degli Stati Uniti.

Nella impostazione di Grushko – politico colto e preparato in materia di politica internazionale – tutto sembra ridotto ridursi ad una questione di interessi. Per Grushko come per Putin l’interesse “nazionale” dell’Europa sarebbe quello di continuare a importare gas russo a basso prezzo senza obbedire ai presunti diktat di Washington in materia di sanzioni.

Questa visione rispecchia visioni arcaiche e riduttive che forse si ispirano (in modo peraltro non accurato) alle prime teorie realiste nella disciplina delle relazioni internazionali, secondo le quali i diversi regimi politici degli stati non influenzano la loro politica estera. Angelo Panebianco, per citare uno dei maggiore esperti europei in materia, nel volume I guerrieri democratici ha spiegato come sia sbagliata e mal posta l’antica disputa fra i teorici liberali che esaltano le specificità delle politiche estere delle democrazie e i teorici realisti dello Stato-potenza che le negano (come teorizza la diplomazia russa oggi) .

Viceversa, è vero che non ci sono mai state guerre tra paesi democratici (teoria della pace democratica). I comportamenti internazionali incentivati dalle democrazie sono dunque effettivamente diversi perché costretti a tener conto molto di più delle opinioni pubbliche rispetto a quelli dei sistemi politici autoritari. Tuttavia – aggiunge saggiamente Panebianco – non si può essere troppo schematici, perché ci sono anche alcuni elementi comuni nelle politiche estere di tutti i paesi in materia di sicurezza nazionale.

La distanza siderale sui valori rende difficile riaprire un dialogo tra la UE e la Russia di Putin anche a prescindere sul dossier Ucraina. Ogni paese si sceglie il regime che vuole, ma è sbagliato sottovalutare il potere delle idee, ovvero i fattori che una volta avremmo definito “ideologici”.

Rispetto alla guerra fredda c’è tuttavia una differenza significativa. Allora c’era una contrapposizione tra società aperte e laiche da una parte e la dottrina marxista-leninista dell’Unione sovietica dall’altra. Oggi no. I valori a cui si ispirano tutte le democrazie (occidentali, asiatiche e africane) sono grosso modo sempre gli stessi: libertà politiche, civili e religiose per tutti i cittadini, stato di diritto, indipendenza del potere giudiziario e, last but not least, libertà di informazione.

Cosa propone in termini ideali la Russia di oggi? Difficile rispondere. Forse Matteo Salvini può aiutarci a capire. Mi vengono in mente il 7 giugno 2018, la Villa Abamelek, il Gianicolo, la festa dell’indipendenza russa. Le cronache riportano: “Arriva il neoministro dell’Interno Matteo Salvini, accolto come una star. Applausi, strette di mano. E poi il leader della Lega viene ammesso a un lungo colloquio privato con l’ambasciatore russo in Italia, Sergey Razov” .

Fabrizio Cicchitto, fonte autorevole per comprendere le dinamiche della politica italiana, ha scritto recentemente che a proposito di Zelensky a Sanremo “può anche darsi che qualche ragione di soddisfazione ce l’abbia l’ambasciatore russo Razov che può esibire ancora una volta al suo padrone il suo potere di ricatto nei confronti di un bel pezzo del mondo politico, finanziario e televisivo italiano” . Per inciso la dichiarazione di Cicchitto può servire anche come spunto per un approfondimento del COPASIR in analogia con quanto il presidente Lorenzo Guerini ha avviato in materia di Cina e 5G durante la sua precedente esperienza alla presidenza del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica.

Forse, diversamente dalla guerra fredda, il comportamento della Russia potrebbe definirsi una politica di potenza priva di ideologia. Qualcuno sostiene che la stella polare di Putin siano i valori della tradizione. Ma patria, famiglia e fede religiosa sono valori che si possono tranquillamente coltivare negli stati democratici senza bisogno di perseguitare i giornalisti, di arrestare e/o torturare i dissidenti, far fuggire i migliori talenti, censurare la stampa e invadere con i carri armati un paese vicino, come è successo un anno fa in Ucraina e prima in Crimea, Georgia, Crimea, Afghanistan, Cecoslovacchia e Ungheria.

La cifra politica della Russia appare oggi arida. Sembra quasi – lo dico ovviamente in modo provocatorio – che l’uso disinvolto dei carri armati sia l’elemento di continuità nell’immagine politica di una nazione imperiale che viceversa si fonda su una straordinaria cultura umanistica e scientifica.

Nel 1997 ricordo di aver assistito alle celebrazioni del 750° anno di fondazione della città di Mosca. Nonostante la crisi economica c’erano grandi speranze. Alla cerimonia e cena ufficiale al Cremlino partecipò letteralmente mezzo mondo: rappresentanti di paesi stranieri, scienziati e intellettuali, i maggiori imprenditori internazionali e in quei giorni anche un concerto del grande Luciano Pavarotti.

Rispetto a quel risveglio culturale e religioso, i paesi democratici hanno sbagliato perché hanno pensato che la fine dell’URSS coincidesse con la morte della Russia. Nella seconda metà degli anni Novanta non hanno dato a Mosca il sostegno necessario per far fronte alla crisi finanziaria anche perché dominavano le ricette neoliberiste che tanti danni hanno fatto in giro per il mondo.

AL BANO E IL MESSAGGIO DI ZELENSKY A SANREMO

Sono passati 25 anni e gradualmente la Russia sembra essersi sempre più rinchiusa e isolata in sé stessa. Non si può ridurre tutto a interessi. In questa cornice per l’ostinazione di Putin (e del suo variegato cerchio magico dal Patriarca Kirill a Razmand Kadirov) l’appello al cessate il fuoco e alla ripresa di contatti diplomatici – pur assolutamente condivisibile – continua a cadere nel vuoto.

Che fare? Penso che Al Bano, favorevole alla presenza di Zelensky ma grande amico della Russia e molto amato dal popolo russo, forse ci potrebbe aiutare.

Nei panni di Amadeus, domani non vorrei essere io a leggere il testo. Chiederei invece ad Al Bano di leggere a Sanremo il messaggio di Zelensky. I cittadini russi capirebbero così che il messaggio non è ostile. La voce di Albano Carrisi interpreterebbe magnificamente l’appello di libertà, giustizia e pace che viene dal popolo ucraino; forse anche al Cremlino a qualcuno fischierebbero le orecchie. Se non ora, quando?

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