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Agcom parla di Cdn ma cerca risorse per le telco, cosa cela l’ultima mossa dell’Authority

Le ultime mosse dell’Agcom sulla regolamentazione delle Content Delivery Network (Cdn). Fatti e approfondimenti

 

Il dibattito sulla regolamentazione delle Content Delivery Network (CDN) è entrato nel vivo. L’AGCOM ha lanciato una consultazione pubblica per valutare l’estensione dell’autorizzazione generale, prevista dal Codice europeo delle comunicazioni elettroniche (EECC), anche a chi gestisce o possiede infrastrutture CDN sul territorio italiano. Una mossa che, pur motivata da esigenze di equità e controllo, rischia di aprire un nuovo fronte di scontro tra telco e big tech.

Le CDN sono reti di server distribuiti geograficamente, utilizzate per velocizzare la consegna di contenuti digitali come video, file e servizi cloud. Sono infrastrutture critiche e sempre più centrali nell’ecosistema digitale: vengono utilizzate da piattaforme come Akamai, Amazon (AWS e Prime Video), Cloudflare, Google, Microsoft, Netflix e da operatori che forniscono contenuti propri o servizi a terzi.

Il precedente DAZN e l’equiparazione con le telco

Il precedente che ha innescato la riflessione regolatoria risale al 2021, con l’arrivo di DAZN in Italia e l’acquisizione dei diritti della Serie A. Le iniziali difficoltà tecniche nel garantire una trasmissione fluida portarono AGCOM a imporre alla piattaforma lo status di operatore soggetto ad autorizzazione generale. Una decisione giustificata dal “carattere di interesse pubblico” della trasmissione delle partite.

Oggi, la proposta dell’Autorità mira a estendere lo stesso principio a tutti i gestori di CDN. L’obiettivo dichiarato è quello di garantire maggiore trasparenza, qualità del servizio e un mercato “più equo”, in cui chi gestisce infrastrutture fondamentali per la trasmissione dei contenuti risponda agli stessi obblighi delle telco.

Labriola (TIM): “Le CDN non sono più optional, servono regole uguali per tutti”

Tra i sostenitori dell’iniziativa c’è Pietro Labriola, amministratore delegato di TIM e grande sponsor della “fair share” – la tassazione sui giganti della rete mirata a finanziare le infrastrutture di comunicazione – che ha accolto con favore la consultazione. “Le CDN non sono più optional tecnologici,” ha dichiarato. “Sono colonne portanti della distribuzione dei contenuti online: portano i video più vicino agli utenti, migliorano la qualità e riducono i tempi di attesa. Eppure, chi le gestisce non deve rispettare le stesse regole degli operatori di rete”.

Secondo Labriola, l’estensione della regolazione potrebbe portare benefici concreti: “Maggiore resilienza delle reti, qualità superiore nella distribuzione dei contenuti e un mercato più equo”. Tuttavia, lo stesso CEO ammette che la questione di fondo rimane: “Possiamo chiederci se l’approccio corretto sia estendere le regole a tutti o ridurle per tutti. Ma oggi serve un terreno di gioco livellato, costruito attraverso un confronto aperto e costruttivo”. Da capire però quale sarà la posizione del nuovo primo azionista di TIM, cioè Poste (il cui maggior cliente si chiama Amazon).

Le critiche delle big tech: “Un precedente pericoloso per l’Internet aperto”

Di tutt’altro avviso alcune delle principali piattaforme internazionali, che temono un inasprimento normativo – l’ennesimo in Europa ma questa volta a livello italiano –  finalizzato ad aprire la strada a un “fair share” mascherato. L’estensione dell’autorizzazione generale, secondo i principali esperti di settore, potrebbe rendere obbligatoria la stipula di accordi di interconnessione commerciale con le telco, con AGCOM nel ruolo di arbitro. Il rischio, dicono, è che gli operatori di rete — che nel frattempo sviluppano CDN proprie — beneficino di un vantaggio competitivo, in un contesto di potenziale conflitto di interessi.

Una lettura condivisa da Konstantinos Komaitis, giurista esperto di governance di Internet e Senior Fellow presso il DFRLab dell’Atlantic Council. Per Komaitis, “l’Italia è da tempo un caso problematico per l’Internet aperto”. Il riferimento è anche al discusso sistema Piracy Shield, accusato di aver causato blocchi indiscriminati di servizi come Google Drive e Cloudflare, con “effetti sproporzionati” e senza adeguata trasparenza.

Secondo Komaitis, “l’inclusione delle CDN nel regime di autorizzazione rappresenta una pericolosa estensione regolatoria, che potrebbe trovare spazio anche nella nuova legislazione europea in cantiere, il Digital Networks Act”, su cui peraltro la FTC americana ha già acceso i riflettori. E aggiunge Komaitis: “L’obiettivo reale sembra essere quello di introdurre – passando dalla porta di servizio  – una tassazione sull’uso della rete, sfruttando le disposizioni dell’articolo 26 dell’EECC per creare un meccanismo formale di dispute resolution tra telco e fornitori di contenuti”.

UE, il treno dell’innovazione all’incontrario va?

Komaitis lancia un monito anche più ampio: “L’Europa deve difendere l’Internet aperto, se vuole davvero attrarre nuovi talenti, investimenti e posizionarsi come leader dell’economia digitale. Questo tipo di regolazione va nella direzione opposta”. La rete aperta, sostiene, è essenziale anche per la sicurezza e la difesa nazionale, perché abilita condivisione di informazioni, identificazione di minacce e diffusione di consapevolezza.

Tra Roma, Bruxelles e Washington

A rendere ancora più delicata la questione è il contesto internazionale. Il MIMIT ha mostrato aperture verso l’estensione regolatoria, mentre il Dipartimento per la trasformazione digitale appare più cauto. Sul piano europeo, la Commissione ha momentaneamente accantonato il dibattito sul “fair share”, ma la mossa italiana potrebbe riaccendere la discussione.

Intanto, negli Stati Uniti, le spinte italiane verso la “fair share” sono già finite nel “National Trade Estimate Report”, dove si parla esplicitamente di potenziale barriera non tariffaria, e del tema – come di altri finiti nel rapporto – le aziende USA avevano discusso in un meeting tenutosi lo scorso ottobre presso l’Ambasciata di via Veneto, con l’allora Segretario di stato al Commercio Gina DiRaimondo. È probabile che anche in questo caso il file finisca direttamente sul tavolo della Casa Bianca. Un problema questo anche per Giorgia Meloni. Il presidente del Consiglio ha infatti in agenda un meeting con Donald Trump il 17 aprile, e la via surrettizia per arrivare ad una tassazione ad hoc delle Big tech portata avanti dall’Agcom sarebbe vista come un’ulteriore misura ostile al libero commercio. Un problema, appunto, di cui Giorgia Meloni e l’UE non hanno proprio bisogno in questo momento.

Snodo cruciale per il futuro digitale europeo

In gioco non c’è solo la questione tecnica delle CDN. La consultazione AGCOM, nel suo impianto, rappresenta una cartina al tornasole di come l’Italia — e l’Europa — intendano bilanciare sovranità digitale, concorrenza e libertà di rete. È un confronto tra esigenze infrastrutturali e principi fondanti dell’ecosistema digitale globale.

Come osserva Labriola, ora è il momento di “un confronto aperto e costruttivo”. Ma l’avvertimento di Komaitis resta: l’Internet aperto non è un lusso, ma una necessità democratica, strategica e tecnologica. L’Italia dovrebbe saperlo bene.

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