Alcuni dei maggiori esponenti dell’industria petrolifera statunitense hanno fatto sapere che non riusciranno ad aumentare granché le vendite di greggio e gas liquefatto all’Europa questo inverno.
“LA NOSTRA PRODUZIONE È QUELLA CHE È”
L’America è la maggiore produttrice al mondo sia di petrolio che di gas naturale. Wil VanLoh, amministratore delegato di Quantum Energy Partners, un gruppo di private equity che investe molto nello shale patch (si chiama così il settore petrolifero americano, dal nome delle rocce che contengono gli idrocarburi: shale o scisti), ha dichiarato però che “non è che gli Stati Uniti possano pompare di più. La nostra produzione è quella che è”.
“Non c’è nessun salvataggio in arrivo”, ha aggiunto, riferendosi alla situazione difficile nel Vecchio continente. “Né sul fronte del petrolio, né su quello del gas”.
PERCHÉ IL PREZZO DEL PETROLIO TORNERÀ A SALIRE
Da diverse settimane i prezzi internazionali del greggio sono calati, attestandosi intorno ai 90-91 dollari al barile. Ma potrebbero tornare a salire, superando anche i 100 dollari al barile, non appena entrerà in vigore l’embargo dell’Unione europea alla quasi totalità del petrolio russo. La rimozione di fatto dell’offerta russa dal mercato europeo farà crescere i prezzi del greggio, visto che i paesi europei dovranno rivolgersi ad altri fornitori.
Anche gli Stati Uniti (ma ne acquistavano già poco) e il Regno Unito (con gradualità, entro la fine dell’anno) hanno messo al bando il petrolio russo.
LO SCETTICISMO DEI PETROLIERI AMERICANI
L’industria petrolifera americana ha a disposizione vastissime riserve di idrocarburi, che potrebbe prelevare dal sottosuolo per alleviare la crisi energetica europea. Ma le aziende non sono in grado di aumentare la produzione in tempo per l’inverno. Le capacità di esportazione di greggio e di gas liquefatto, peraltro, è vicina al massimo.
Scott Sheffield, amministratore delegato dell’importante compagnia petrolifera americana Pioneer Natural Resources, si è mostrato scettico in merito alla possibilità di un grosso aumento produttivo da parte del settore. “Noi non stiamo aggiungendo impianti di perforazione e non vedo nessuno che lo stia facendo”, ha detto.
Sheffield sostiene che i prezzi del greggio potrebbero salire sopra i 120 dollari al barile nei mesi invernale per via della scarsa offerta. Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, le vendite di petrolio della Russia – che ne è la maggiore esportatrice del pianeta, scrive il Financial Times – potrebbero calare di quasi il 20 per cento una volta che l’embargo europeo entrerà in vigore.
I DATI
Prima della pandemia di coronavirus, gli Stati Uniti producevano 13 milioni di barili di petrolio al mondo, oltre il 10 per cento dell’offerta globale. Molte cose sono cambiate da allora: le restrizioni anti-contagi fecero precipitare la richiesta di energia e con essa i prezzi, causando il fallimento delle società estrattive più fragili sotto il profilo finanziario; l’industria americana però è sopravvissuta, si è riorganizzata e razionalizzata (semplificando: meno operatori, più grandi e con i conti in ordine); e ha iniziato a prestare più attenzione alla disciplina fiscale che all’aumento frenetico della produzione.
Attualmente gli Stati Uniti producono 12,1 milioni di barili al giorno, molto più di tante nazioni facenti parte dell’OPEC. Il numero di siti di trivellazione orizzontale nel bacino Permiano (il principale giacimento petrolifero americano) è attualmente di 316, meno dei 331 di luglio e molto meno dei 443 del 2019.
COSA VOGLIONO (E OTTENGONO) GLI AZIONISTI
Questo calo è dovuto principalmente al fatto che gli azionisti chiedono alle società petrolifere di seguire una linea improntata alla bassa produzione e agli alti profitti: significa ridurre le spese di trivellazione, sfruttare soprattutto i pozzi che si hanno già e approfittare del contesto generale di alti prezzi del petrolio; i soldi ottenuti dovranno essere redistribuiti agli azionisti in forma di dividendi, piuttosto che spesi in nuova capacità estrattiva.
COSA VORREBBE (E NON PUÒ OTTENERE) LA CASA BIANCA
In sostanza, gli investitori non vogliono che queste società perseguano piani di crescita. La Casa Bianca vorrebbe il contrario – ossia più produzione, in modo da favorire l’abbassamento dei prezzi del greggio e quindi del carburante, in vista delle elezioni di novembre – ma non può imporsi sulle aziende private, che non sono tenute a seguire una direzione politica.
IL PROBLEMA DELL’INFLAZIONE
Al di là della linea dettata dagli azionisti, le società petrolifere che vorrebbero trivellare hanno difficoltà a farlo per la carenza di manodopera e di materie prime come la sabbia, e anche per l’inflazione: i tubi di acciaio per gli impianti di trivellazione sono arrivati a costare 4150 dollari a tonnellata, contro i 2300 dollari di un anno fa.