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Giappone Nucleare

Rifiuti radioattivi, a che punto è l’Italia?

L'Italia ha una gran quantità di rifiuti radioattivi da smaltire, ma ci vuole ancora tanto tempo. L'approfondimento di Nunzio Ingiusto

Centrali no, ma rifiuti si. L’Italia non ha centrali nucleari attive, ma una gran quantità di rifiuti radioattivi da smaltire. Gli italiani hanno detto no all’energia atomica nel 2011 mediante un referendum abrogativo che ha portato alla chiusura dei quattro siti di Latina, Caorso, Trino Vercellese e Garigliano. Se, come e quando si possa ripensare quella scelta del 2011 è argomento mai abbandonato del tutto. Tornato prepotentemente in primo piano nel 2019, in occasione – nemmeno a dirlo – delle manifestazioni dei giovani di Friday for future.

Il nucleare può essere una risposta alla crisi climatica mondiale e alle immissioni di Co2 in atmosfera? Il quesito ha fatto breccia in tanta parte del mondo, ricevendo risposte ed azioni positive autorevoli. Bill Gates è visto come porta bandiera di una mobilitazione mondiale: da 13 anni è tra i più convinti sostenitori delle centrali attraverso una sua società, la Terra Power, nella quale ha investito 500 milioni di dollari. Con lui scienziati, ricercatori e think tank americani, giapponesi, cinesi.

Nuove centrali sono in costruzione in Africa, Cina, Russia, India, nonostante il nucleare rappresenti poco più del 10% dell’energia mondiale prodotta. La tecnologia è andata avanti e rispetto ai miliardi di dollari o di euro necessari per realizzare nuovi impianti, sul mercato ci sono oggi reattori meno pericolosi di quelli disastrati di Chernobyl o Fukushima. Nelle sfortunate località che hanno contrassegnato il destino di una fonte energetica privilegiata fino agli anni ’90, la paura non è scomparsa. Spenti comunque i reattori e non ricevendo più elettricità prodotta da fusione, in tutto il mondo resta il problema delle scorie e dei rifiuti radioattivi da smaltire con costi proibitivi.

Su questo l’Italia è decisamente indietro. E per quanti piani siano stati elaborati dalla Sogin, la società pubblica che gestisce le ex centrali, il deposito nazionale non è stato ancora individuato. Mappe, carte, comitati, pareri scientifici, politica, sono elementi di un mosaico scomposto arrivato nelle mani di Luigi Perri ed Emanuele Fontani, rispettivamente nuovo presidente e amministratore delegato della società.

Come i loro predecessori sono impegnati a dare una soluzione al problema. Il materiale radioattivo presente nei siti temporanei è gestito con grande scrupolo ed efficienti protocolli di sicurezza. In attesa del sito nazionale ogni tanto il materiale è trasportato lontano per incenerimento e condizionamento. In questi giorni tocca alla centrale di Caorso vedere partire verso la Slovacchia, 162 fusti di resine e fanghi radioattivi. Vi ritorneranno dopo il trattamento tecnico per essere nuovamente custoditi.

Ma quante scorie pericolose ci sono sparse per l’Italia? L’inventario nazionale dei rifiuti radioattivi – ISIN – dice che nel 2018 sono aumentate. Numeri sconvolgenti: 5506 metri cubi in Piemonte, 6060 in Lombardia, 9311 nel Lazio, 2965 in Campania, 3215 in Basilicata, su cui la politica, prima di tutto per il coinvolgimento delle popolazioni, è chiamata a dare risposte. Per costruire il deposito ci vogliono dai 7 ai 10 anni anni di lavoro e se si decidesse domani dovremmo aspettare ancora tanto prima di vedere chiusi per sempre i materiali di un’idea di energia che la maggioranza degli italiani non vuole più.

I rifiuti radioattivi censiti vengono principalmente da attività di bonifica o smantellamento dei siti , come è vero che in gran parte sono a bassa radioattività. Per scelta non si costruiscono altri depositi temporanei, in attesa del definitivo unico nazionale classificato come Parco tecnologico. A proposito di Caorso: “L’allontanamento delle resine è un passaggio chiave per svuotare i depositi temporanei del sito e procedere al loro adeguamento per accogliere i rifiuti derivanti dalle future attività di decommissioning, senza così dover realizzare strutture di stoccaggio temporaneo”, ha detto Perri.

Sogin ha messo a disposizione sul proprio sito le informazioni utili a capire cosa l’Italia deve (avrebbe dovuto) fare. Ma il viaggio di andata e ritorno fra 3 anni, da Caorso a Javis di Bohunice in Slovacchia ci costa, intanto, 37 milioni di euro. Soldi pubblici senza un’idea precisa di quando e come un governo di svolta green chiuderà un capitolo tormentato dello sviluppo italiano. Magari ha fatto i conti per il 2023, quando pensa di concludere l’esperienza. Magari anche molto prima.

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