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Petrolio

Perché il petrolio americano non salverà l’Europa dalla Russia

Nonostante il contesto favorevole (prezzi alti, domanda forte, sostegno politico), le società petrolifere americane non stanno e non vogliono produrre grandi quantità di barili. Ecco perché.

 

I prezzi del petrolio sono alti: sopra i 104 dollari al barile, nel caso del Brent. L’Unione europea ha intenzione di ridurre la sua dipendenza energetica dalla Russia, che non riguarda solo il gas naturale ma anche il greggio. Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, nonostante la sua ambiziosa agenda climatica, ha chiesto alle società petrolifere americane di aumentare la produzione.

Eppure queste ultime, nonostante il contesto apparentemente favorevolissimo, non stanno trivellando quanto potrebbero. Se l’Europa, dunque, dovesse mettere al bando le importazioni di petrolio dalla Russia come ritorsione per l’invasione dell’Ucraina, non potrà fare troppo affidamento sui barili statunitensi.

LE PREVISIONI SULL’OUTPUT DI PETROLIO NEGLI STATI UNITI

Come riporta il New York Times, negli Stati Uniti la produzione petrolifera è cresciuta meno del 2 per cento dallo scorso dicembre e ammonta a 11,8 milioni di barili al giorno, un valore decisamente inferiore a quello record raggiunto a marzo 2020 (13,1 milioni di barili), prima che la pandemia di coronavirus paralizzasse l’economia mondiale e facesse precipitare i prezzi del greggio.

Le previsioni governative dicono che nel 2022 l’output petrolifero americano si attesterà su una media di 12 milioni di barili al giorno; nel 2023 aumenterà di un altro milione circa. Sono volumi insufficienti a rimpiazzare anche i quasi 4 milioni di barili che l’Europa importa ogni giorno dalla Russia.

PAURA DI UN NUOVO CROLLO

Se il valore e la domanda di greggio sono robusti, perché le compagnie petrolifere americane non ne approfittano? Perché non sono sicure – e soprattutto non lo sono i loro azionisti – che i prezzi del petrolio resteranno alti per un periodo di tempo abbastanza lungo, che possa permettere loro di trarre profitto dalle trivellazioni di tanti nuovi pozzi. Nel settore è forte il ricordo del 2020, quando i prezzi dei barili precipitarono e molte aziende dovettero comprimere le attività e tagliare il personale, o perfino chiedere protezione dalla bancarotta.

È il motivo principale, ma non l’unico: alcune società, per esempio, lamentano carenze di lavoratori e di sabbia (viene utilizzata nel processo di fratturazione idraulica delle rocce di shale, dalle quali si estrae il petrolio americano).

Gli investitori, comunque, temono soprattutto che se la disponibilità di petrolio sul mercato dovesse aumentare di molto, la fase attuale di prezzi alti finirebbe e il valore di un barile potrebbe scendere fino a 50 dollari entro la fine dell’anno. La maggior parte delle aziende americane ha bisogno di prezzi a 56 dollari al barile per raggiungere il break even, cioè per pareggiare i costi di estrazione con il guadagno.

LE SPIEGAZIONI DELLE AZIENDE

Gli investitori e i dirigenti delle compagnie petrolifere americane offrono diverse spiegazioni al perché, secondo loro, i prezzi del petrolio potrebbero crollare di nuovo: i lockdown in Cina potrebbero compromettere la crescita economica del paese e comprimere la domanda di energia (in parte è vero); un accordo sul nucleare tra l’amministrazione Biden e l’Iran potrebbe permettere il ritorno del greggio iraniano sul mercato; la transizione energetica ha reso difficile trovare finanziatori per nuove attività oil & gas.

Le grandi aziende, inoltre, chiedono maggiori certezze all’amministrazione Biden, perché pensano che la Casa Bianca ritirerà il sostegno alle trivellazioni non appena i prezzi del petrolio caleranno.

BOOM AND BUST

L’industria petrolifera americana non è sempre stata così prudente, anzi. Una decina d’anni i produttori di shale reagivano immediatamente ai movimenti del prezzo del petrolio: non appena questo cresceva, si attivavano per estrarre barili e trarre profitto. A ogni boom estrattivo seguiva però una fase di bust, cioè di crollo del valore e di fallimenti di aziende: solo negli ultimi quattordici anni ci sono stati tre cicli di questo tipo.

DIVIDENDI E INFLAZIONE

Pioneer Natural Resources, un grande produttore petrolifero in Texas, ha abbandonato i suoi piani di aumento dell’output del 20 per cento, abbassando l’obiettivo al 5 per cento. Più che investire in nuova capacità estrattiva, l’azienda ha fatto sapere di voler restituire l’80 per cento del flusso di cassa libero (quello che resta una volta sottratte le spese operative e le spese in conto capitale) agli azionisti. È una condotta estremamente diffusa nel settore petrolifero americano: la frenesia estrattiva ha lasciato il posto al rigore fiscale; le imprese spendono di meno e si concentrano sulla riduzione del debito e sulla ripartizione dei dividendi.

Alcuni produttori sostengono di stare in realtà investendo molto in nuova produzione di idrocarburi, ma i risultati sono penalizzati dall’inflazione. Nel 2022, scrive il New York Times, la spesa in esplorazione e produzione petrolifera aumenterà di più del 20 per cento, ma per la maggior parte servirà a coprire i costi maggiori del lavoro, dei materiali e dei servizi.

I PICCOLI FANNO DI PIÙ

Se le grosse società, che devono rispondere agli azionisti, si mantengono prudenti, le imprese più piccole e non quotate, finanziate da fondi di private equity, sono più attive. Secondo un sondaggio della Federal Reserve Bank di Dallas, in Texas, il tasso medio di crescita dei produttori con un output inferiore a 10mila barili sarà del 15 per cento quest’anno, rispetto al 6 per cento dei produttori dall’output superiore a 10mila barili.

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