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Popolare Bari e Tercas, tutti i rapporti fra Jacobini, De Bustis e Bankitalia

Che cosa si sapeva da anni sulla Banca Popolare di Bari. L'articolo di Vittorio Malagutti pubblicato nel 2016 su L'Espresso

 

I risparmi di una vita bloccati in banca. Migliaia di famiglie che non possono attingere al loro tesoretto in titoli. E allora domande, suppliche, ricorsi, esposti in tribunale. Va avanti così da mesi, ormai: da una parte un esercito di piccoli azionisti delusi e inferociti. Dall’altra i vertici della Popolare di Bari, il più grande istituto di credito del Sud, oltre 70 mila soci e, da mezzo secolo, una dinastia al comando: Marco Jacobini, il presidente, entrato in consiglio nel lontano 1978, insieme ai suoi due figli, Gianluca, condirettore generale, e Luigi, vicedirettore generale.

Ma dietro questa storia di risparmio tradito, con i soci della Popolare di Bari che non riescono più a vendere le loro azioni, c’è molto di più. C’è un complicato intreccio di prestiti incagliati, conflitti d’interessi, perdite in bilancio. E sullo sfondo il ruolo della Banca d’Italia, che già tre anni fa, dopo una lunga ispezione, aveva segnalato importanti «criticità», per dirla con il felpato linguaggio della Vigilanza, nella gestione dell’istituto pugliese.

Eppure, nell’ottobre del 2013, poche settimane dopo quella severa reprimenda, proprio da Bankitalia era arrivato a Bari l’invito a farsi carico di Tercas, la vecchia Cassa di Teramo che dopo un lungo commissariamento stava per affondare travolta dalle perdite. L’intervento della Popolare, con l’esplicito appoggio del governatore Ignazio Visco, è andato in scena l’anno successivo. E così la banca di Jacobini si è trovata a gestire, oltre ai propri crediti incagliati, anche quelli dell’istituto appena comprato con un investimento complessivo di 300 milioni. L’onda lunga di quell’operazione si è scaricata sul bilancio 2015, chiuso con 297 milioni di perdite, che salgono a 475 milioni se si escludono alcune poste una tantum di natura fiscale.

Ma andiamo con ordine e torniamo all’inizio 2013, quando i funzionari della Vigilanza si presentarono al quartier generale della banca barese per restarci, nel corso di tre successivi interventi, quasi otto mesi. L’Espresso ha avuto accesso ad alcuni documenti riservati che risalgono a quei giorni.

Va detto innanzitutto che il voto finale attribuito alla Popolare di Bari al termine dell’ultima ispezione, quella chiusa ad agosto 2013, è stato pari a 4, corrispondente a “parzialmente sfavorevole”, in una scala che va da 1 (il massimo) a 6. Insomma, la Banca d’Italia non sembrava affatto soddisfatta dell’operato di Jacobini e dei suoi manager. E nelle carte dell’ispezione, che l’Espresso ha potuto consultare, vengono formulati rilievi pesanti.

Si parla per esempio di «eccessiva correntezza» nei crediti verso alcuni gruppi. Per correntezza, in gergo bancario, si intende la velocità con cui viene sbrigata una pratica. In sostanza, alcuni prestiti importanti sarebbero stati erogati senza verifiche adeguate sulla solidità del cliente. Gli ispettori segnalano il caso dei gruppi Fusillo e Curci, che insieme controllano la holding Maiora group. A favore di questa società, si legge nelle carte, sono stati accordati finanziamenti «non sempre sufficientemente vagliati» e neppure «esaustivamente rappresentati al consiglio». Insomma, denaro facile. E per importi notevoli. Maiora group, alla fine del 2013, aveva già accumulato debiti per 131 milioni con la Popolare di Bari.

I Fusillo, a cui fa capo metà del capitale della holding, sono costruttori molto conosciuti, e influenti, nel capoluogo pugliese. C’è Nicola Fusillo, già parlamentare del centrosinistra, nel 2015 schierato alle regionali con il candidato vincente, Michele Emiliano. Il resto della famiglia è invece cresciuto a gran velocità realizzando centri commerciali, villaggi turistici, un grande polo della logistica a Rutigliano, solo per citare gli interventi più importanti. Tra le attività dei Curci, invece, va ricordata la partecipazione del 30 per cento nel capitale della “Gazzetta del Mezzogiorno”, il quotidiano di Bari. Questa quota al momento risulta ceduta in pegno alla Popolare guidata da Jacobini.

Nel loro rapporto gli ispettori di Banca d’Italia segnalano anche «la prassi di sottoscrivere quote di fondi comuni che investono in immobili venduti da clienti finanziati dalla banca stessa». Una manovra, questa, che consente di fatto all’istituto di credito di azzerare la propria esposizione trasformandola, per così dire, in quote del fondo. Un esempio? Eccolo, tra quelli citati dalla Vigilanza. La Popolare di Bari, già nel 2011, ha sottoscritto tutte le quote del fondo Tiziano, comparto San Nicola, che è gestito dal gruppo romano Sorgente. Lo stesso fondo ha poi acquistato il “Grande Albergo delle Nazioni”, uno degli immobili storici del capoluogo pugliese, affacciato sul Lungomare Nazario Sauro. E chi ha messo in vendita l’hotel? Proprio la società Fimco controllata dai Fusillo, grandi debitori, come abbiamo visto, della Popolare di Bari. Quest’ultima ha quindi sostituito i propri crediti con le quote dei veicoli d’investimento targati Sorgente. La stessa Fimco ha ceduto al Fondo Donatello, anche questo gestito da Sorgente, un altro palazzo di pregio come l’Hotel Oriente, nel centro storico della città di San Nicola.

Bilanci alla mano, l’investimento in fondi immobiliari assorbe una fetta importante del portafoglio titoli della Popolare pugliese. Nei conti del 2015 questa voce vale 122 milioni e rispetto all’anno precedente ha già provocato perdite per 13 milioni. Il nome dei Fusillo, invece, ricorre anche nella triste storia della Popolare di Vicenza, schiantata da perdite ben superiori al miliardo e da mesi al centro di un’indagine della magistratura. Alcune società della famiglia di costruttori hanno in passato ricevuto finanziamenti milionari da fondi offshore con base a Malta. E questi erano stati a loro volta foraggiati dalla banca veneta all’epoca guidata da Gianni Zonin. Le coincidenze non finiscono qui. Vincenzo De Bustis, direttore generale della Popolare Bari da fine 2011 ad aprile 2015, nel 2013 ha ceduto una sua società personale alla holding Methorios, partecipata dall’ex candidato sindaco di Roma, Alfio Marchini. E anche Methorios è stata finanziata da quegli stessi fondi maltesi che sono intervenuti per sostenere i Fusillo, grandi clienti della Popolare di Bari.

Fin dal 2013, la Vigilanza aveva preso atto dei crediti a rischio dell’istituto pugliese. E gli aspetti critici della gestione erano stati sintetizzati in un giudizio, quel “parzialmente sfavorevole”, che avrebbe dovuto stroncare sul nascere i progetti di espansione di Jacobini e del suo direttore generale De Bustis. Tercas però andava salvata. E in fretta. In quello scorcio di fine 2013 la Banca d’Italia era alla affannosa ricerca di un compratore per l’istituto abruzzese. Nessun banchiere però intendeva accollarsi gli oneri dell’operazione, pari ad almeno 600 milioni.

A questo punto si è fatto avanti Jacobini. Siamo nell’ottobre 2013. Si è appena conclusa, con esito negativo, l’ispezione della Vigilanza. Nessun problema, a quanto pare. Ad agosto dell’anno successivo, Bari si prende Tercas. Il conto viene saldato per metà dal Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fidt), finanziato da tutte le banche nazionali. La stampella di sistema non è però sufficiente per chiudere l’operazione. E così la Popolare Bari non trova di meglio che chiedere soldi ai propri soci. Nel novembre 2014 vengono piazzate azioni per 300 milioni e obbligazioni subordinate per 200 milioni circa. Nella primavera del 2015 va in porto un altro collocamento da 50 milioni. I risparmiatori accorrono in massa. A fine 2013 i soci della banca superavano di poco quota 60 mila. Due anni dopo erano diventati circa 70 mila. Le brutte sorprese cominciano ad aprile di quest’anno. Prima la Popolare Bari annuncia la maxi perdita nei conti del 2015 dovuta in buona parte agli oneri del salvataggio Tercas. E viene tagliato anche il valore delle azioni, stabilito di anno in anno dalla banca stessa con una procedura già oggetto di molte critiche, come nei casi di Popolare Vicenza e Veneto Banca. Il ribasso è del 20 per cento circa: da 9,53 a 7,5 euro.

Solo pochi mesi prima, migliaia di investitori avevano sottoscritto l’aumento di capitale pagando le azioni 8,95 euro. I titoli non sono quotati in Borsa e la Popolare, che gestisce in autonomia un mercato ad hoc, è stata travolta dalle domande di vendita. Le aste mensili soddisfano richieste per poche migliaia di azioni. Tutto fermo. O quasi. La banca si è impegnata a ristabilire quanto prima «la fluidità del mercato», ma intanto monta la protesta. Alcune decine di soci, giovedì 20 ottobre, hanno manifestato in piazza a Bari con striscioni e altoparlanti. Niente da fare. Morale della storia: il conto salato del salvataggio Tercas è stato pagato dai piccoli azionisti della Popolare. E la Banca d’Italia, che poteva intervenire per tempo, resta a guardare. Per ora.

Estratto di un articolo pubblicato su L’espresso, qui la versione integrale.

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