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Prodi Berlusconi

Milleproroghe o Millepasticci? La parola a Mattarella. Il commento di Polillo

A Mattarella spetta un compito ingrato sul Milleproroghe. Non quello di sindacare il contenuto dei provvedimenti. Ma di impedire l’uso di veicoli legislativi impropri, che possano nascondere interessi di parte: sia politici (concessioni) sia economici (piano per il digitale). Il commento di Gianfranco Polillo Non c’è niente da fare. Siamo stati (male) abituati. E alla…

Non c’è niente da fare. Siamo stati (male) abituati. E alla fine questo malvezzo è diventato virale. Ormai la vecchia legge finanziaria si è trasformata in un “omnibus” contro il quale si levavano le grida non solo dei rappresentanti della Prima Repubblica, ma degli esponenti della Sinistra storica, al tempo dello Statuto Albertino. Centinaia di anni passati invano. Nonostante le prescrizioni dell’articolo 72 della Costituzione repubblicana, che prevede l’approvazione di qualsiasi legge, “articolo per articolo”, i nuovi testi sono composti solo da migliaia di commi. Così è più facile porre il voto di fiducia, espropriando il Parlamento di qualsiasi prerogativa. Fino a sottrargli, come sta avvenendo, anche la possibilità di una semplice discussione.

Non si era ancora visto, tuttavia, la trasformazione del decreto legge “Milleproroghe”, che dovrebbe limitarsi a stabilire una diversa scadenza per le leggi esistenti, in una nuova fonte primaria dell’ordinamento. In grado, cioè, di regolare nuove fattispecie giuridiche. Ipotesi, quest’ultima, che ne cambierebbe la natura, con risultati di dubbia costituzionalità. I motivi di “necessità ed urgenza”, caratteristica tipica di ogni decreto legge, in questo caso sono connessi alla limitazione del danno, non solo economico, che potrebbe derivare dalla sua mancata conversione in legge. Si prorogano, pertanto, solo quelle norme che avendo, ab origine, un limite temporale non hanno ancora prodotto, entro il lasso di tempo considerato, i risultati conseguenti.

Tutto il resto è “estraneità di materia” e quindi non può essere contenuto nello stesso veicolo. Se il Governo vuole, può approvare uno specifico decreto legge, che dovrà, tuttavia seguire, l’iter costituzionale previsto in questi casi. A partire dalla dimostrazione della sua specifica “necessità ed urgenza”. La commistione invece tentata, non sembra rispondere né al dettato né alla prassi costituzionale, codificata, per altro, negli stessi Regolamenti parlamentari. Quindi un pasticcio che ha fatto giustamente insorgete alcuni ministri, già durante la riunione di Palazzo Chigi.

Reazione comprensibile da parte, soprattutto di Italia viva. Fino al compromesso finale, dopo sei ore di scontri e discussioni, nella nuova formula, che ormai è diventa il classico del “salvo intese”. Nuovo format legislativo. Del resto il motivo del contendere era tutt’altro che banale: una sorta di “esproprio proletario” (copyright di Teresa Bellanova, ministra delle Politiche agricole) nei confronti di Autostrade ed un fumoso Piano per il digitale, scritto, secondo le accuse, sotto dettatura da parte della premiata Casaleggio Associati.

Episodi del genere oltre a lasciare basiti, richiedono una necessaria spiegazione. Il fatto è che i 5 stelle non hanno ancora elaborato il lutto delle loro continue sconfitte elettorali. A partire da quella europea, poi bissata nel confronto umbro. E, con ogni probabilità, destinata a ripetersi, almeno secondo i sondaggi, nel caso dell’Emilia Romagna. Hanno pensato che tutto ciò fosse solo conseguenza di un fatto contingente, al quale si potesse rimediare chiamando a raccolta i propri attivisti.

Questa “credenza” li ha portati a sottovalutare il mutamento intervenuto nei rapporti di forza all’interno dell’elettorato. E quindi ad opporsi alle giuste pressioni di Matteo Salvini, l’indubbio vincitore delle due tornate elettorali, che proponeva un cambio di passo della politica governativa. Non più la sequela dei “no“ che, fino allora, aveva bloccato qualsiasi decisione – dalla No Tav, all’Ilva – ma misure concrete, a partire dalla riduzione più ampia possibile del carico fiscale, per favorire la crescita economica dell’Italia o, almeno, allentarne la morsa recessiva. Respinte al mittente queste pressioni, il risultato non poteva che essere la crisi del Governo giallo – verde.

Che cosa è cambiato da allora? Ben poco. La protervia nella gestione dell’agenda di governo, nonostante le defaticanti opere di mediazione del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, è rimasta la stessa. Gli episodi più recenti. L’idea che il Paese reale, per riprendere una vecchia definizione, non corrisponda più al Paese legale, non sfiora nemmeno la testa di Luigi Di Maio. Nonostante le preoccupazioni più volte espresse dallo stesso Beppe Grillo. C’è quindi qualcosa di insondabile in questi atteggiamenti. Quasi la sensazione, ma è qualcosa di più di un sospetto, che si voglia approfittare, fino all’ultimo, di una posizione di rendita parlamentare, prima di perdere, quasi inevitabilmente, lo scettro del comando.

Si spiegherebbe allora il tentativo di stravolgere la natura del decreto “Milleproroghe”, ponendo, ogni volta, i propri alleati di fronte ad un secco “aut aut”. Sottovalutando, tuttavia, le implicazioni di carattere costituzionali di un simile atteggiamento. Spetta, infatti, al presidente della Repubblica verificare, come ribadito dalla Corte costituzionale, se sussistono i requisiti di “necessità ed urgenza” e, quindi, nel caso di contenuti omnibus, chiedere lo stralcio di quelle norme che non rispondono, in modo diretto e prioritario, a tali esigenze.

A Sergio Mattarella, quindi, in una fase così confusa, spetta un compito ancora più ingrato. Che ovviamente non è quello di sindacare il contenuto politico dei singoli provvedimenti. Ma di impedire la confusione delle “forme”. L’uso cioè di veicoli legislativi impropri, che possano nascondere interessi di parte: sia politici (il caso delle concessioni) sia economici (il piano per il digitale). E dar luogo a quella scarsa trasparenza in cui prosperano le lobbies.

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