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Iri

L’eterno ritorno dell’Iri è la sconfitta di Andreatta, Carli e Draghi

L'articolo dell'analista Alessandro Aresu

L’eterno ritorno dell’Iri (Istituto per la Ricostruzione Industriale) è una categoria dello spirito che ha ormai sovrastato l’eterno ritorno di Nietzsche. Nell’ultimo decennio il dibattito si è fatto più intenso, fino a diventare quotidiano.

Come ho scritto sull’ultimo Limes, penso che l’esistenza di questo dibattito sia la sconfitta di Beniamino Andreatta, Guido Carli e Mario Draghi. Andreatta, Carli e Draghi volevano liberare l’economia italiana dalla commistione politica, di una politica già debole e lontana dai fasti degli anni ’50 e ’60. Questa è una parte importante dell’ideologia del vincolo esterno e delle privatizzazioni, di cui potremmo parlare a lungo. Lo stato del capitalismo italiano mostra la sconfitta di questo progetto. La mano pubblica è fortemente presente in una Borsa con capitalizzazione complessiva molto ridotta rispetto a paesi comparabili. Il momento della nomina dei manager pubblici è centrale nella vita di ogni governo, quanto e più di prima. Con pochissime eccezioni, non sono nate grandi imprese private significative. In questi termini, Andreatta, Carli e Draghi hanno perso. Era comunque impossibile liberarsi dell’Iri con una strada europea perché la sezione della Commissione europea sui dati di ricerca industriale e innovazione si chiama, appunto, Iri.

L’Iri è un animale costruito in un tempo molto diverso dal nostro, da uomini in confronto ai quali siamo tutti oggettivamente scarsi. Quindi non so se serva un nuovo Iri. Di sicuro non serve, come è stato notato, una nuova Gepi o Efim, una società pubblica incaricata di acquisire imprese in perdita. Le difficili problematiche politiche e sociali dovranno essere risolte e affrontate in un altro modo. Non occorre un confuso conglomerato aziendale che forse non può nemmeno esistere e di certo non può funzionare. Su questo vale la frase di Alberto Predieri liquidatore dell’Efim: “Non hanno senso i gruppi in cui si fa di tutto, dalle ostriche in scatola ai carri armati”.

Detto questo, credo che liquidare l’Iri sia stato un errore. Un grave errore. C’era corruzione nell’Iri? Ah sì, allora l’Eni dell’epoca era la Candida Rosa dantesca?

All’Iri non è stato consentito di sopravvivere, snellito e ristrutturato, per custodire un grande patrimonio culturale e svolgere due compiti essenziali: la promozione e la connessione di una scuola di manager industriali; l’investimento in ricerca e trasferimento tecnologico. Così, una storia è stata chiusa, quasi gli italiani dovessero vergognarsene. Soprattutto, è stata chiusa senza interrogarsi sui vuoti rimasti. Sono quei vuoti a bussare sempre alla nostra porta, come fantasmi. Continueranno a farlo.

Il primo compito sopra descritto, la cultura manageriale industriale, spetterà soprattutto alla Cassa Depositi e Prestiti. Per il secondo compito, servirebbe una Fraunhofer Gesellschaft, che in Germania racchiude gli istituti di ricerca applicata. Anche questo è un dibattito di lunga data. Un primo Iri (Istituto per il Rilancio dell’Innovazione) potrebbe incaricarsi di costruire una realtà simile, non con un approccio verticistico ma promuovendo e rafforzando una rete tra i centri di ricerca che già esistono, con fondi che permettano loro di crescere e di migliorarsi.

Un secondo Iri (Istituto per la Realizzazione delle Infrastrutture) dovrebbe incaricarsi di un’altra emergenza: la progettazione e la realizzazione di infrastrutture, che costituisce ormai un problema sistemico del nostro Paese che perseguita ogni nuovo governo, e che a mio avviso dovrebbe essere il tema del discorso di fine anno del Presidente della Repubblica per la sua gravità e le sue conseguenze occupazionali e sociali. Ho cercato di descriverlo sull’ultimo numero di Limes con l’immagine di Enrico Mattei a una conferenza di servizi. Occorre ricordare che, se Mattei avesse dovuto affrontare un fardello burocratico e procedurale pari a quello attuale, l’Italia non avrebbe mai smesso di essere povera.

Un terzo Iri (Istituto per il Rafforzamento delle Imprese) dovrebbe rilanciare la cultura manifatturiera e abbracciare una scomoda verità: piccolo non è bello. Soprattutto, perché il “piccolo” del dibattito italiano è formato da una distesa sterminata non di piccole ma di microimprese, che non possono e non potranno mai trainare la crescita del nostro Paese. Varie ricerche, da Cerved a Mediobanca-Fondazione La Malfa, ci aiutano a guardare il comparto delle imprese che possono farlo. Si tratta delle medie imprese. Dovrebbero essere loro, con ogni mezzo, a essere sostenute per rafforzarsi, patrimonializzarsi, aggregarsi, crescere e comprare all’estero.

Ecco quindi i nuovi Iri, pensati sulla base di emergenze e potenzialità reali. Con opzioni per l’acronimo più snelle di un “Istituto”: Impulso, Iniziativa, Impeto. Oppure, in omaggio a Beneduce, Idea.

 

Alessandro Aresu

(Le sue opinioni sono strettamente personali e non impegnano in alcun modo altri enti)

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