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Draghi, lo spread e i veri timori dei mercati sull’Italia

L'analisi di Gianfranco Polillo

 

Non illudiamoci, i mercati hanno bisogno di ulteriori conferme. Non è bastato, infatti, il passaggio repentino dalle stelle alle stalle. I riconoscimenti internazionali: da Angela Merkel a Emmanuel Macron. Soprattutto i dati della congiuntura: il Pil che cresce ad un ritmo superiore a quello degli altri Paesi europei, il forte attivo delle partite con l’estero; il salto di qualità nei rapporti internazionali, con l’Italia che diventa il più forte creditore europeo, dopo la Germania e l’Olanda. Elementi che non giustificano minimamente non tanto il salto negli spread sui titoli italiani, quanto la differenza con gli altri Membri dell’Eurozona. Ieri, la chiusura collocava i titoli italiani, come rendimento, al terzo posto: dopo l’Ungheria e la Repubblica Ceca. In Spagna gli spread sui Bonos erano un po’ più della metà (81 punti base) di quelli sui CCT italiani (140,9). A loro volta cresciuti di oltre il 50 per cento dalla metà dello scorso ottobre.

Si potrebbe tirare in ballo, per giustificare un simile andamento, la maggior diffusione del virus. In effetti i contagi crescono in modo preoccupante, dopo i dati più tranquillizzanti delle settimane precedenti. Ma all’estero le cose non vanno meglio. Anzi i contagiati sono molto di più, a causa di un numero ben più limitato di vaccinati. Fosse stata questa la causa, gli spread sui titoli degli altri Paesi membri dell’Eurozona sarebbero dovuti essere ben maggiori. Ma così non è stato. Ed allora occorre cercare altrove la causa di un malessere, che mal si concilia con i dati del reale.

Ciò che sembra preoccupare i mercati, più di ogni altra cosa, è il rischio dell’effimero. La possibilità, tutt’altro che peregrina, che questa bella pagina di storia nazionale possa finire così com’era cominciata. Che ben presto – mancano ormai pochi giorni all’elezione del Presidente della repubblica – i vecchi vizi della politica italiana possano, nuovamente, prendere il sopravvento. Che invece di “Draghi for president”, le forze politiche italiane non si dimostrino all’altezza della sfida, che sono chiamate a sostenere. Che prevalga un piccolo cabotaggio parlamentare, comunque più che difficile da gestire. Una scelta che non abbia una sua intrinseca dignità. Che non risponda ad un criterio di razionalità democratica in cui ciascuno si possa riconoscere. Condizione indispensabile per tacitare le eventuali critiche internazionali, rispondere alla reazione dei mercati, mantenere alto in Europa quel prestigio che l’Italia ha saputo riconquistare. Merito di tutti, come ha ricordato lo stesso Presidente del consiglio, e non di un uomo, meglio di un “nonno”, solo al comando.

Ed allora rimettiamo indietro gli orologi per tornare alle vicende del 2011: uno degli anni più difficili dagli inizi del Terzo millennio. La crisi del 2007, che aveva portato al fallimento della Lehman Brothers, in Europa – meno negli USA – aveva lasciato strascichi profondi. L’economia era crollata, il deficit di bilancio, com’era inevitabile, aumentato e con esso il peso del debito pubblico sul Pil. L’Italia entrava, ma solo come riserva, nel Club dei GIPSI: Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e solo alla fine Italia. Vi entrava a causa del suo debito pubblico particolarmente elevato. Secondo solo alla Grecia. Ma più che compensato da altri elementi positivi: quali la minore esposizione sul fronte dei debiti privati ed il privilegio di poter vantare una ricchezza finanziaria, che non aveva uguali in tutto il mondo occidentale.

Bisogna ricordarli quei numeri, rimasti impressi in modo indelebile nel database che definisce i colori dell’Alert mechanism: la procedura europea, posta a presidio della governance macroeconomica dell’Eurozona. Allora il debito pubblico della Grecia era pari al 175,2 per cento del Pil, quello dell’Italia al 119,7, dell’Irlanda al 110,6, del Portogallo al 114,4. Ma della Spagna solo al 69,9. Un dato che già allora non tornava nella spiegazione semplicistica fornita, secondo la quale i Paesi che avevano “peccato” – in tedesco per colpa e debito si usa lo stesso vocabolo – dovevano pagare. La “colpa” spagnola, infatti, era ben al di sotto delle medie dell’Eurozona. Nessun tribunale della storia avrebbe potuto, pertanto, condannare quel Paese per gli eccessi di liberalità.

Sul fronte dei debiti privati, sempre in rapporto al Pil, la gerarchia era più o meno rovesciata. Il debito greco era pari ad appena il 133 per cento del Pil, quello italiano del 122,2, ma tutti gli altri ben più elevati: Irlanda 273,1 per cento, Portogallo 204,6, Spagna 198,2. Altra stranezza, infine, il caso del Belgio: un debito pubblico pari al 103,5 per cento del Pil, ed uno privato del 180,6: per cui quello aggregato di ben 42,2 punti di Pil superiore a quello italiano. Ma il Belgio non faceva parte dei GIPSI, né fu minimamente aggredito dalla speculazione internazionale.

La giustificazione postuma dei vari benpensanti, nel tentativo di svelare i meccanismi della crisi, fu disarmante. Il debito privato, non contava. Era gestito dal mercato e quindi, sarebbero stati i privati a rispondere nel caso delle eventuali insolvenze. Risposta, più che ridicola, arrogante. Finiva per negare in radice le cause che avevano portato al fallimento della Lehman Brothers, sorvolando sul successivo contagio. Negli USA, dall’epicentro privato, il virus dei titoli tossici si era diffuso all’interno dell’intero sistema economico e finanziario, coinvolgendo – grande regalo nei confronti della Cina – tutti i Paesi occidentali. Soprattutto impegnando duramente le strutture pubbliche al fine di contenerne la relativa crisi. Si pensi solo agli interventi del Fondo salva Stati: a sua volta finanziato a debito da parte di tutti i Paesi dell’Eurozona.

La crisi, in Europa, si sviluppò secondo la logica dell’effetto domino. Iniziò la Grecia, dopo le improvvide ammissioni sul taroccaggio dei propri conti pubblici. Approdò quindi in Irlanda, dove le banche avevano avuta una gestione all’insegna del “moral hazard”. Investì quindi la Spagna ed il Portogallo, travolti per i reciproci legami in un insolito destino, nel segno di una devastante speculazione immobiliare. L’Italia era ancora fuori da quell’orizzonte, tant’è che gli spread sui suoi titoli di stato – i CCT a dieci anni – erano più bassi di quelli spagnoli: i Bonos.

Quale era l’elemento che univa realtà così diverse? Il deficit ricorrente delle partite correnti delle loro bilance dei pagamenti, che negli anni avevano richiesto, per chiudere in pareggio, ingenti finanziamenti da parte dell’estero. Il debito estero greco ammontava, nel 2011, al 90,4 per cento del Pil, quello irlandese al 138,6, quello portoghese al 104,1 e quello spagnolo al 93,8. Debito a breve, nella forma di “hot money” o, se si preferisce di “sudden stop”: flussi in grado di essere dirottati, con estrema rapidità, in caso di “risk off”: vale a dire di improvvisa variazione del coefficiente di rischio. Si spiega allora perché Paesi, pur così diversi, si trovarono sottoposti alle stesse pressioni. Ma si spiega anche il caso del Belgio che, a differenza degli altri, aveva crediti nei confronti dell’estero pari al 51,4 per cento del Pil.

E l’Italia? Il suo debito con l’estero era pari ad appena il 18,2 per cento del Pil. Non poteva quindi essere questa la ragione di un suo coinvolgimento così forte, considerando anche gli altri parametri del debito pubblico e di quello privato. Fu soprattutto la precarietà della sua posizione politica a determinare quel diluvio di vendite dei suoi titoli pubblici, che portarono alla definitiva crisi di governo. Un complotto? come pure di disse.

L’affermazione è un po’ forte, ma può rendere l’idea. Quella condizione si può ripetere? Difficile dare certezze. Il progresso compiuto in questi ultimi anni è stato straordinario. Mentre i vecchi GIPS sono ancora alle prese con un debito estero estremamente pesante, l’Italia non solo ha pagato i suoi debiti, ma li ha trasformati in crediti. “Alla fine dello scorso giugno – scrive la Banca d’Italia nel suo ultimo Bollettino – la posizione netta sull’estero dell’Italia era creditoria per 89,6 miliardi di euro, pari al 5,2 per cento del PIL, in aumento di 39,1 miliardi rispetto alla fine di marzo”. Una buona prospettiva. Vediamo di non distruggerla, con una politica inconcludente.

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