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Quota 100

Come rivoluzionare (bene) il Reddito di cittadinanza

L'analisi di Giuliano Cazzola

 

È stata resa nota in questi giorni la ‘’relazione del Comitato scientifico per la valutazione del reddito di cittadinanza’’ presieduto da Chiara Saraceno.

Le ‘’dieci proposte’’ — indicate per superare le criticità emerse nel corso dell’applicazione del RdC (peraltro in generale già evidenziate quando ancora era in discussione la normativa) – possono, se accolte nel ddl di bilancio, migliorare la necessaria revisione dell’istituto.

Non sono ancora indicati i costi e le relative coperture: questo è oggettivamente un limite. Tuttavia, vi sono nella relazione, aspetti interessanti che riguardano sia i criteri e le modalità dell’accesso al RdC, sia le procedure e gli obiettivi dell’avviamento al lavoro (certamente la parte più critica dell’attuale disciplina). Quanto ai requisiti viene dimezzato il periodo di residenza in Italia per poter ottenere il beneficio. La norma in vigore, si poneva l’obiettivo di penalizzare gli stranieri, ma aveva necessariamente una valenza di carattere generale, non essendo possibile discriminare palesemente i cittadini comunitari ed extracomunitari. A questi ultimi, poi, era richiesta una documentazione sulla situazione patrimoniale in patria, spesso difficile da acquisire. Vengono riparametrate le scale di equivalenza a beneficio delle famiglie numerose e sono proposti limiti meno stringenti per il cumulo tra il RdC e l’eventuale reddito da lavoro.

Tra le altre misure di buon senso, viene indicata l’opportunità di differenziare il contributo per l’affitto in base alla dimensione del nucleo familiare e di abolire l’obbligo di spendere l’intero assegno entro una scadenza predefinita. Ma, la parte più innovativa riguarda la ‘’gestione’’ dei percettori del reddito, perché tiene conto delle condizioni effettive delle platee dei beneficiari. Fin dall’inizio della ‘’presa in carico’’ verrebbe effettuata la distinzione tra chi non è occupabile e chi in teoria potrebbe esserlo, avviando, senza inutili giri, i primi ai servizi degli enti locali. Così la dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro verrebbe sottoscritta solo dai soggetti avviati ai CPI. La vera novità – di rilievo strutturale – consiste nell’adeguare il concetto di ‘’lavoro congruo’’ alle caratteristiche della platea dei richiedenti.

Si riconosce, infatti, che ‘’i beneficiari di RdC, anche quando teoricamente “occupabili” spesso non hanno una esperienza recente di lavoro ed hanno qualifiche molto basse. Inoltre, i settori in cui potrebbero trovare un’occupazione – edilizia, turismo, ristorazione, logistica – sono spesso caratterizzati da una forte stagionalità. I criteri attualmente utilizzati per definire congrua, e quindi non rifiutabile, un’offerta di lavoro non tengono conto adeguatamente di questi aspetti’’ mentre sarebbe prioritario favorire la costruzione di un’esperienza lavorativa.

Pertanto, anche la qualità del lavoro che viene offerto dovrebbe considerare ‘’almeno temporaneamente, congrui non solo contratti di lavoro che abbiano una durata minima non inferiore a tre mesi’’, ma anche quelli per un tempo più breve, purché non inferiori al mese, ‘’per incoraggiare persone spesso molto distanti dal mercato del lavoro ad iniziare ad entrarvi e fare esperienza’’.

Ma il bagno nella realtà si spinge oltre e mette in discussione la norma più assurda ora in vigore. L’obbligo di assumere a tempo indeterminato per le aziende che intendono usufruire dell’incentivo previsto. ‘’Trovare un’occupazione a tempo indeterminato e con orario pieno rappresenta – è scritto nel documento – l’obiettivo ultimo dei percorsi d’inclusione lavorativa. Il mercato del lavoro, tuttavia, non sempre presenta queste condizioni, soprattutto all’ingresso, anche per chi non è, a differenza dei beneficiari di RdC, in situazione di particolare fragilità’’.

Così vengono riconosciute, sia pure a certe condizioni che irrigidiscono l’operazione, meritevoli dell’incentivo anche aziende che offrono rapporti di lavoro a termine o a part time.

Che dire in conclusione?

Le proposte ridimensionano il limite ‘’ideologico’’ che ha ispirato l’istituzione del RdC: quello di tenere insieme, con un notevole stanziamento di risorse, un obiettivo di inclusione sociale e uno strumento importante di politica attiva. Ovvero la pretesa di combattere con la stessa misura tanto la povertà quanto il precariato. Ma vale davvero la pena di prevedere un percorso separato per politiche attive figlie di un dio minore, quasi una sorta di ‘’Garanzia Giovani’’ per gli adulti?

Se il RdC non può essere (per tanti motivi) il volano della svolta nel campo delle politiche attive, sembrerebbe più opportuno e meno oneroso ritornare alla funzione immaginata per il ReI dove non erano escluse esperienze lavorative quali corollario di un’idea di  ‘’cittadinanza’’ intesa innanzi tutto come ‘’inclusione’’ sociale gestita dagli enti locali. Per aiutare i disoccupati che hanno ‘’confidenza’’ con il mercato del lavoro, anche se ne sono temporaneamente estranei, produrrebbe maggiori risultati dotare gli interessati di un assegno di ricollocazione da ‘’spendere’’ in un CPI o in una agenzia del lavoro che allo scopo di svolgere quelle attività formative che li rendano nuovamente ‘’occupabili’’. Se non abbiamo capito male dovrebbe essere questo la il compito del Programma GOL.

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