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Credit Suisse

Chi comprerà Credit Suisse ai saldi?

Mire ed effetti dell'inchiesta giornalistica sul Credit Suisse. Il corsivo di Teo Dalavecuras.

 

Come da copione, in principio fu il verbo del The New York Times che anticipava, nella rituale forma della “breaking news” l’imminente pubblicazione della ennesima inchiesta kolossal basata sulla fuga (“leak”) dagli archivi dove erano – si fa per dire – custoditi, di 18 mila documenti bancari riguardanti 30 mila clienti del Credit Suisse. L’anticipazione parlava di uomini forti, spie e violatori di diritti umani che dagli anni Quaranta del secolo scorso sino a pochi anni fa avevano affidato somme enormi a una banca svizzera. Due giorni dopo, l’articolo con un po’ di nomi e vecchie storie stantie sul segreto bancario svizzero è comparso su alcune decine di quotidiani collegati al solito “consorzio” di giornalisti, manco a dirlo, “investigativi”, dove l’investigazione è consistita verosimilmente nella scansione, alla ricerca dei nomi più succulenti, dei file ricevuti da un anonimo moralizzatore del sistema finanziario internazionale; salvo quello americano, che non ha mai attirato l’attenzione di siffatti “consorzi” perché è moralizzato alla nascita, come ha già dimostrato conclusivamente con la vicenda della bolla dei subprime del 2008 che, contrariamente a ciò che qualcuno ha superficialmente pensato, non è stata affatto uno scandalo ma più banalmente una crisi finanziaria planetaria i cui cocci sono stati raccolti dalle grandi banche europee).

La cosa in sé non dovrebbe nemmeno far vendere molte copie in più alle testate che partecipano a questo genere di catene di Sant’Antonio, per la ripetitività dello schema e dei contenuti. Se infatti fosse vera anche solo una parte di quel che racconta Edward Snowden (l’informatico della Cia e della Nsa riparato in Russia dopo aver lavato sulla piazza mediatica internazionale un po’ di panni intimi delle due agenzie), dovremmo tutti esserci rassegnati già da un pezzo al fatto che nulla di ciò che è contenuto su un supporto informatico è segreto. Mi guardo bene anche solo dall’immaginare che all’origine di queste “fughe” possa esserci l’intelligence degli Stati Uniti; dico solo che se la sua azione non fosse improntata alla rettitudine che ben conosciamo, alla sullodata intelligence basterebbe schiacciare qualche tasto per produrre intere collezioni di documenti bancari segretissimi.

L’elemento che mi ha colpito in questa puntata della serie è che tutta l’indignazione postuma della rete mediatica collegata al consorzio, che questa volta si chiama Organized Crime and Corruption Reporting Project, in sigla OCCRP, si rovescia sulla seconda banca svizzera, il Credit Suisse, che negli ultimi anni non si è negata proprio nulla, a cominciare dalle burrascose dimissioni del numero uno Tidjane Thiam accusato di aver fatto pedinare uno dei suoi più stretti collaboratori da detective privati (e anche un po’ maldestri visto si erano quasi subito fatti riconoscere dal pedinato, che era anche vicino di villa di Thiam, e con lui era pure venuto alle mani per una questione, appunto, di vicinato). Poi la banca ha infilato una serie di buchi devastanti a cominciare da Greensill Capital (3 miliardi di dollari), proseguendo con lo hedge-fund Archegos Capital (5 miliardi di dollari). Il 19 ottobre 2021 l’autorità di vigilanza dei mercati finanziari elvetici, la Finma, ha concluso l’indagine su un finanziamento erogato dalla filiale di Londra del Credit Suisse in Mozambico, rivelatosi più che problematico. È risultato che del finanziamento di 1 miliardo di dollari concesso nel 2013 dalla banca svizzera a due imprese statali del Mozambico, denaro destinato all’acquisto di una flotta di natanti per la pesca del tonno, 200 milioni si erano persi per strada: 150 erano finiti nelle tasche di funzionari pubblici del Mozambico, ma anche qualche banker del Credit Suisse di Londra era uscito bene, diciamo così, dall’operazione, incassando 50 milioni di dollari, un onesto 5%. Per la banca il conto di questo “incidente” è stato di 475 milioni di dollari, poca cosa rispetto al buco degli affari Greensill e Archegos, ma non per quel che restava della reputazione della banca. Infine, per concludere “in bellezza” l’anno 2021, in dicembre la Procura federale ha avviato un procedimento a carico del Credit Suisse per una storia di riciclaggio a beneficio di trafficanti di stupefacenti della Bulgaria risalente agli anni 2004-2008, che ha permesso ai mafiosi bulgari di ripulire e poi, grazie anche al ritardo con il quale i conti sono stati bloccati dalla banca, mettere al sicuro 35 milioni di franchi svizzeri.

Non entro nel merito delle scelte, diciamo così, giornalistiche, del Organized Crime and Corruption Reporting Project: personalmente trovo che riscoprire la storia della Svizzera rifugio di capitali sporchi nel 2022, quando i banchieri svizzeri applicano in maniera particolarmente rigorosa (di sicuro più rigorosa dei loro colleghi degli States) le procedure antiriciclaggio, non sia proprio il massimo del “giornalismo investigativo”. Qualcuno potrebbe certo obiettare, con Mario Missiroli, che “nulla è inedito come il già edito”.

Ma al di là delle opinioni personali, è innegabile che la scelta di aggredire mediaticamente, con tutto l’impiego di risorse che la OCCRP, con una rete di decine di affiliati in altrettanti paesi dell’Europa, Africa e Asia Centrale può mettere in campo, un gruppo bancario afflitto dalle disgrazie manageriali, finanziarie e legali in cui il Credit Suisse è inciampato in questi questi anni (che oltretutto non accennano a finire) abbia un sapore maramaldesco: se non è uccidere un uomo morto poco ci manca.

A meno che quest’ultima dolorosa botta mediatica non sia destinata a penalizzare ulteriormente la quotazione delle già boccheggianti azioni della grande banca. Finché all’improvviso qualcuno si accorgerà che la seconda banca svizzera si può “portare via per un pezzo di pane”, come avrebbe detto cinquant’anni fa un remisier della Borsa di Milano. Possiamo parlare di eterogenesi dei fini?

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