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Metternich, il restauratore

Il Bloc Notes di Michele Magno

“Queste amabili rive uniscono le voci che si salutano: le parole che risuonano dalle due parti sono ripetute dagli echi che s’incontrano nel mezzo del fiume”. Questo fiume è la Mosella, cantato nel quarto secolo dal poeta Ausonio come ponte tra il mondo della classicità romana e il mondo delle nuove genti barbariche. Lambiva le sue sponde un palazzo sulla Müntzplatz di Coblenza, in cui vede la luce -il 15 maggio 1773- Klemens Wenzel Lothar von Metternich (Luigi Mascilli Migliorini ne ha ricostruito la complessa figura in una suggestiva biografia edita da Salerno, 2014).

Sono i genitori gli artefici della formazione giovanile di Klemens. Franz-Georg, il padre, era uno stimato funzionario ministeriale. Maria Beatrice Aloisia von Kagenegg, la madre, apparteneva a una importante famiglia viennese. Da lei apprende a parlare correntemente il francese e viene introdotto nei salotti buoni della società asburgica. “Vernunft und Humanität” (Ragione e Umanità) sono le stelle polari della sua educazione renana, come l’ha definita Heinrich von Srbik. Essa viene affidata a due precettori, l’abate Bertrand e il protestante Friedrich Simon, un fervente seguace della filantropia illuminista di Jean-Jacques Rousseau. È lui che suggerisce all’adolescente “precoce e altezzoso” la lettura delle “Confessioni” e del “Contratto sociale”. Più tardi, Metternich ricorderà che “le dottrine di questo giacobino e l’appello alle passioni popolari mi ispirarono una repulsione che l’età e l’esperienza non hanno fatto che accescere”. Tuttavia, questo dettaglio della sua biografia intellettuale ci dice che le opere del filosofo ginevrino erano conosciute non soltanto dai figli dell’Ottantanove, ma circolavano anche tra i rampolli di una aristocrazia che si sentiva investita della missione di rimediare alle sue macerie.

Appena quindicenne, Klemens viene avviato agli studi universitari nella capitale alsaziana insieme al fratello Joseph. Nelle sue “Memorie” Strasburgo è descritta come una città cosmopolita, piacevole e perfino gioiosa, che però non lo distoglieva dalle lezioni di Christoph Wilhelm Koch, uno dei maestri della scuola diplomatica tedesca. Suo era quel “Tableau des révolutions d’Europe”, apparso a Losanna nel 1771, che proponeva di ricomporre la vocazione conflittuale delle nazioni del Vecchio continente in un nuovo e più equilibrato sistema di relazioni internazionali. Il suo soggiorno si interrompe bruscamente il 14 luglio 1789, quando è indignato testimone di un drammatico episodio: “Circondato da una folla inconsciente che si considerava come popolo, avevo assistito al saccheggio dell’Hôtel de Ville di Strasburgo, atto di vandalismo commesso da una plebaglia infuriata”. È da allora che Klemens comincia a interrogarsi sui dilemmi della sovranità e della sua legittimazione. Nel 1790 è a Francoforte, dove partecipa alle cerimonie dell’incoronazione imperiale di Leopoldo II: “Uno degli spettacoli più grandiosi e magnifici tra quelli a cui è possibile assistere”.

Questa affermazione preludeva a una svolta del suo pensiero, che matura quando ripara nel più protetto perimetro tra Coblenza -rifugio dell’emigrazione legittimista- e Magonza, dove completa gli studi universitari. Nel luglio 1791 è a Bruxelles, dove il padre era stato trasferito come ministro plenipotenziario. È lì che il significato dell’evento rivoluzionario gli diventa chiaro. Esso era per lui così radicale e sconvolgente da richiedere non un ottuso ritorno all’Antico regime, ma un disegno politico in grado di estirparne le radici. Allievo di Nikolaus Vogt a Magonza, non ignorava l’idea di “Europäische Republik” formulata dal suo professore. Nell’edificio istituzionale europeo di Vogt repubblica e monarchia potevano coesistere, purché si tenessero ben lontane dagli eccessi dell’anarchia e della tirannide. Garanzia di questo equilibrio era la “medietà sociale”, ossia un costruttivo compromesso tra ceto medio mercantile e nobiltà. Avvalendosi di questa elaborazione, il ventenne Klemens va dritto al centro del problema. Rousseau rovesciato, individua il perno della stabilità sociale nella proprietà. Condizione che certo ribadiva il ruolo preminente dell’aristocrazia,ma che non poteva più costituire -a differenza del sangue- l’imprescindibile giustificazione dei suoi privilegi, perché ormai “la proprietà è borghese”. Nel 1794 si recherà in Inghilterra proprio per raccogliere informazioni più precise sulle nuove classi sociali e sulle nuove forme parlamentari create da due “rivoluzioni borghesi”.
Costretto a rientrare precipitosamente a Düsseldorf, linea di difesa delle truppe austriache in ritirata, si dirige verso la Boemia, dove -persi i possedimenti renani- restava l’ultima risorsa della famiglia: il dominio di Königswart, concesso a un lontano antenato per il coraggio mostrato contro i protestanti nella battaglia della Montagna Bianca (novembre 1620). Il viaggio prevedeva una tappa obbigata, Vienna. Qui, nel giro di dodici mesi, la sua vita vira verso prospettive insperate. Merito di un matrimonio voluto fortemente dalla contessa Beatrice, sua madre. Il 27 settembre 1795 Klemens sposa Eleonora, nipote dell’illustre cancelliere di Maria Teresa Anton von Kaunitz. Scomparso l’anno precedente, era stato il demiurgo di quell’alleanza tra Francia e Austria spezzata dalla presa della Bastiglia, ma che restava il nodo cruciale della questione europea. Le cronache del tempo sono prodighe di pettegolezzi sul legame tra Eleonora e Klemens. Per i più di pura convenienza, non paragonabile alle passate infatuazioni sentimentali di un giovanotto dipinto con i colori della frivolezza e della vanità, ma non privo di quell’aura di elegante bellezza che si può ammirare nel celebre ritratto di Thomas Lawrence. In ogni caso, d’ora in avanti l’immagine del nonno di Eleonora, che aveva fondato la forza degli Asburgo, non cesserà di occupare i suoi sogni .

Il debutto di Klemens nella carriera diplomatica avviene al Congresso di Rastadt (novembre 1797-aprile 1799). Convocato per ratificare il Trattato di Campoformio (ottobre 1797), agli occhi del pur inesperto rappresentante del collegio cattolico di Vestfalia si mostra subito per quello che è: la sanzione del declino irreversibile del Sacro Romano Impero. Mentre i delegati imperiali si attardavano nella stesura di un futile memorandum in latino che disciplinava i rituali delle assise, uno spavaldo Bonaparte si comportava come l’esecutore testamentario di un’epoca al tramonto. È in quel frangente che Klemens mette a punto la sua prima importante intuizione politica: più che dalla spregiudicatezza del ventottenne generale corso, la crisi del vecchio Impero dipendeva dalla sua costituzione interna, “dalle sue avidità, dai suoi contrasti, dal suo servilismo”. Nella sua visione, in altri termini, il primato asburgico in un continente pacificato era inconciliabile con un’istituzione imperiale sempre più bizzarra e antiquata. La battaglia di Marengo (14 giugno 1800) confermerà questa analisi, mettendo a nudo la congenita fragilità della monarchia austriaca. Dopo la strabiliante vittoria di Bonaparte, si apriva una partita inedita: la competizione tra Vienna e Parigi per assicurarsi la funzione di cerniera dell’equilibrio europeo, che chiamava in causa anche le rispettive sfere d’influenza in Germania e in Italia. Sulla strada per Dresda, dove nel 1801 Ferdinand von Trauttmansdorff lo aveva nominato ambasciatore, Klemens si sentiva già un protagonista di quella partita.

Non peccava di presunzione. Dalla capitale della Sassonia, infatti, inizia una folgorante ascesa ai vertici dell’amministrazione imperiale: ambasciatore a Berlino (1803) e a Parigi (1806), ministro degli Affari esteri (1809), cancelliere (1821). Un ventennio speso nella ridefinizione di una “balance of power”, con l’Austria architrave di un’Europa non insidiata né dall’egemonismo francese né dall’espansionismo russo, né dal pangermanesimo prussiano né dalla supremazia marittima inglese. “Attualmente -recita una sua nota redatta all’indomani della dolorosa sconfitta di Austerlitz (1805)- nostro dovere politico è stringere nuove relazioni utili, il cui scopo dovrebbe essere soprattutto quello di ricostruire le nostre forze, di mantenere la tranquillità all’interno e di arrivare a una situazione che ci lasci liberi, per quanto lo consentiranno circostanze ora impossibili da prevedere, di scegliere un ruolo in armonia con le dimensioni e la condizione di un Stato di primo ordine”. Una manifestazione di quel realismo politico che ispirerà uno dei suoi capolavori diplomatici: le nozze tra Napoleone e Maria Luisa (1810), figlia di Francesco I. All’arciduchessa, pronta a mostrarsi -scriveva con enfasi il principe di Schawarzenberg- “agli occhi dell’umanità [come un] angelo della pace, che con una mano ferma i fiumi di sangue pronti a scorrere, e con l’altra guarisce le piaghe ancora così recenti”, veniva dunque affidato il compito di salvare una dinastia sull’orlo del precipizio.

Dopo la fallimentare campagna napoleonica di Russia, non bilanciata dai successi pagati a caro prezzo dalla “Grande Armée” a Lutzen e Bautzen, la “puissance médiatrice” di Metternich -ora insignito del titolo di principe- si rafforza. L’1 giugno 1813 è in viaggio per Gitschin, in Sassonia. Dai colloqui con lo zar Alessandro I e con il sovrano prussiano Federico Guglielmo III ottiene l’assenso a una conferenza di pace. Resta da convincere Napoleone, che gli sollecita un incontro. Il 26 giugno, nel Palazzo Marcolini di Dresda, lo attende con il suo celebre cappello sotto il braccio. Metternich gli si avvicina sentendosi “come l’uomo di Dio carico del fardello del mondo”. Il confronto è tesissimo, e durerà nove ore. “Insomma, che cosa si vuole da me? Che mi disonori?”, sbotta alla fine Napoleone. Il congedo di Metternich è gelido, e ha il tono di una sentenza inappellabile: “Voi siete perduto, Sire. Ne avevo il presentimento venendo qui; ora che me ne vado, ne ho la certezza”. Quella sentenza sarà emessa dal feldmaresciallo von Blücher e dal duca di Wellington sui campi di Waterloo, il 18 giugno 1815.

Pochi giorni prima, Charles-Maurice de Talleyrand aveva firmato per la Francia di Luigi XVIII l’Atto finale del Congresso di Vienna (novembre-giugno 1815). Esso è anche l’atto di nascita dell’Europa di Metternich, con le spartizioni territoriali e con le forme di mutua collaborazione tra gli Stati da lui concepite in chiave antirivoluzionaria. Un estimatore del cancelliere, Henry Kissinger, ne ha così tradotto i principi di fondo: “Un ordine la cui struttura è accettata da tutte le grandi potenze è legittimo; un ordine che includa una potenza che ne considera oppressiva la struttura è rivoluzionario. […] In politica interna, la sicurezza è data dal predominio dell’autorità; in un sistema internazionale, è data dalla parità dei rapporti di forza e dalla sua espressione, cioè l’equilibrio (“Diplomazia della Restaurazione”, Garzanti, 1993).

Quando Il principe rientra nella capitale austriaca, viene osannato da una folla festante e salutato al teatro dell’Opera con le note del “Prometeo” di Beethoven. Omaggio tra i più solenni, tributato allo statista che aveva evitato al suo paese di cadere nel baratro. Sebbene malvisto negli ambienti di corte, in particolare dall’imperatrice Maria Ludovica, grazie all’appoggio di Francesco I resterà a lungo il “nocchiere d’Europa”, come veniva soprannominato. Usando la carota della diplomazia e il bastone della repressione poliziesca, nel corso di tre decenni riuscirà a destreggiarsi tra le turbolente rivalità delle grandi potenze e a contenere spinte nazionalistiche, aspirazioni indipendentiste, diffusione del credo democratico. Ma le “rivoluzioni corrono veloci”. È lo stesso Metternich ad ammetterlo il 6 febbraio 1848, in una lettera indirizzata ad Anton von Apponyis. Ciò che accade in Italia -prova a spiegare al suo ambasciatore a Parigi- non è la rivoluzione di François Guizot: è la rivoluzione di Giuseppe Mazzini, è la rivoluzione sociale, ossia il ritorno del Terrore e della ghigliottina di Robespierre.

Non poteva prevedere che il movimento insurrezionale austriaco avrebbe chiesto poco dopo la sua testa, considerando il cancelliere come il principale nemico delle riforme liberali rivendicate a gran voce. La chiederanno gli studenti -scesi in piazza a Vienna il 28 febbraio- e le Diete della Bassa Austria e dell’Ungheria, con la complicità di una corte ansiosa di liberarsi di un personaggio ormai troppo scomodo. Imperturbabile, il 13 marzo il principe si avvia verso l’Hofburg, dove viene atteso per assumere le decisioni necessarie a sedare la rivolta popolare. In realtà, tutto era stato già deciso. La folla che assedia la residenza imperiale invoca la libertà di stampa, l’elezione di un Parlamento e l’allontanamento del cancelliere. Metternich resiste, e ripete agli astanti una sua massima famosa: “Gli abusi del potere generano le rivoluzioni; le rivoluzioni sono il peggiore degli abusi. La prima frase va detta ai sovrani, la seconda ai popoli”. Ma i suoi ascoltatori -l’imperatore Ferdinando, l’arciduca Giovanni, l’arciduca Luigi, l’arciduchessa Sofia madre di Francesco Giuseppe, il conte von Kolowrat- saranno sordi alle sue ragioni. Mezz’ora prima che scada l’ultimatum degli insorti, viene invitato a dimettersi.

Mentre i manifestanti esultano per la sua caduta, tre giorni dopo abbandona -in gran segreto e sotto falsa identità- la capitale. In una scomoda carrozza raggiunge con Mélanie (la sua terza moglie) il castello di Feldsberg, ospite del principe di Lichtenstein. Riprende la via dell’esilio verso Olmütz, ma gli viene impedito l’ingresso dagli abitanti che lo ricoprono di insulti. Il calvario si interrompe in Olanda, dove i reali gli regalano un po’ di quiete. Al porto di Rotterdam, infine, si imbarca in un battello scalcinato e maleodorante alla volta dell’Inghilterra. Il soggiorno londinese sembra lenirgli l’onta delle umiliazioni subite. Se la regina Vittoria evita di riceverlo, l’aristocrazia britannica lo accoglie con cordialità. Nella casa presa in affitto nel distretto di Belgravia si vede spesso con Wellington, George Aberdden, John Lyndhurst, Benjamin Disraeli, Henry Palmerston. Non manca mai Guizot, che -come il suo vecchio amico- aveva scelto il calore del “focolare britannico”. Metternich, però, non si accontenta di queste relazioni. Intrattiene una fitta corrispondenza con i responsabili della diplomazia asburgica e con Karl Buol, allora ambasciatore a San Pietroburgo. Prepara minuziose note per orientarne la condotta. Spiega all’arciduca Giovanni che la sovranità popolare avrebbe disgregato l’Impero. Plaude al maresciallo Radetzky quando riconquista con le armi Milano. Un’operosità che tuttavia non riesce a soffocare l’amarezza dell’esule. Dopo aver festeggiato il suo settantacinquesimo compleanno, scrive: “Se si è determinato un cambiamento nella mia esistenza, esso si riassume, in fondo, nel fatto che dopo essere stato per più di mezzo secolo l’uomo dell’indomani, io oggi sono l’uomo della vigilia”.

Sul finire dell’estate del 1848, Metternich si trasferisce a Brighton. Qui apprende che il nuovo imperatore, il diciottenne Francesco Giuseppe, il 5 marzo 1849 aveva concesso ai suoi sudditi la Costituzione. Al cancelliere Felix Schwarzenberg esterna immediatamente le sue preoccupazioni. Le rappresentanze nazionali avrebbero fatto implodere l’Impero. E il riconoscimento del principio democratico avrebbe impedito la formazione di una gentry asburgica sulla falsariga di quella d’oltremanica, cioè di una aristocrazia che si eleva più in virtù di una legittimazione proprietaria che di un’investitura dinastica. Ma è la piega che stava prendendo la questione tedesca ad angosciarlo maggiormente.

All’inizio di gennaio, la “Quarterly Rewiew” pubblica un saggio non firmato (da Metternich) che stronca il progetto di Bund redatto da Christian Bunsen, diplomatico prussiano assistente di Bartold Niebuhr a Roma. Una Germania plurale, “divisa in una molteplicità di distretti popolati da tribù di diverse origini, differenti l’una dall’altra per le loro leggi, i loro costumi, ciascuna riconoscendo un suo proprio capo”, era quella in cui Metternich aveva sempre creduto. Era la Germania di Tacito, quella in cui era nato e in cui era stato educato. Non doveva quindi essere una Germania prussianizzata, che avrebbe escluso l’Austria e schiacciato gli stati più piccoli.

Nel 1851 Metternich rientra in patria, e torna in possesso dell’amatissima tenuta di Johannisberg. Qui, il 6 agosto, trascorrerà una intera giornata con un giovane diplomatico prussiano diretto a Francoforte: M. de Bismarck, come annota Mélanie apprezzandone “les meilleurs principes politiques”. Qui trascorrerà i suoi ultimi anni. “Sono morto -dice di sé dopo la guerra di Crimea (1853-1856)- ma appartengo a quel genere di morti nei quali vibrano ancora i nervi e nei quali le impressioni morali si ravvivano grazie a influssi che, in mancanza di meglio, non so definire che con la parola galvanisme”. Questa energia galvanica si consumerà nel 1859. Più che il rimpianto del passato, lo opprimeva l’ansia del presente: l’arrogante revanscismo di Napoleone III, l’astuzia con cui il conte di Cavour si muoveva tra patriottismo risorgimentale e ambizioni sabaude, la gracilità del mondo asburgico. La guerra era vicina, e sarà – il principe lo percepisce chiaramente – l’inizio della “finis Austriae”. Il “cancelliere di ferro” spira l’11 giugno, ma sua nipote Pauline ricorda di averlo visto svenire una settimana prima, alla notizia della disfatta del feldmaresciallo Ferencz Gyulai a Magenta.

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