skip to Main Content

La storia è piena di traditori (ma chi vince non è mai un traditore)

Il Bloc Notes di Michele Magno

La storia è piena di traditori, per avidità o per amor di patria, per ambizione o per vendetta, per fanatismo o per viltà, per mille ragioni e per mille passioni. Ma chi è il traditore? Che sia chi infrange un giuramento, o incrina il patto che unisce una comunità, pare abbastanza ovvio. Per non parlare degli adulteri nella sfera privata, l’attributo di traditore è stato dato a rivoluzionari e voltagabbana, apostati ed eretici, convertiti e rinnegati, ammutinati e disertori, spie e collaborazionisti, ribelli e terroristi, pentiti e crumiri.

Eppure, se osserviamo il tradimento nelle diverse epoche, la percezione che ne hanno avuto contemporanei e posteri è molto più mutevole di quanto non dicano le formalizzazioni giuridiche. Lo dimostra un bel libro di Marcello Flores (“Traditori. Una storia politica e culturale”, il Mulino, 2015). Poiché “chi vince non è mai un traditore”, i protagonisti della sua monumentale ricerca sono quei personaggi che, secondo il potere e le autorità, hanno violato le leggi e i costumi al cui rispetto erano tenuti. Condannati o assolti, assistiti o perseguitati, nelle loro vicissitudini si possono cogliere i sintomi di una millenaria e tortuosa trasformazione: il passaggio dalla fedeltà al sovrano alla fedeltà alla nazione, dalla lealtà individuale alla lealtà istituzionale.

La stessa fondazione di Roma narrata da Tito Livio è strettamente legata -oltre che al fratricidio commesso da Romolo- al tradimento di Tarpea, la figlia del guardiano del Campidoglio. Uscendo dalla leggenda, la “perduellio” designava non solo la consegna della città al nemico, ma la diserzione e la violazione del bando di esilio. La “privazione dell’acqua e del fuoco” (“aquae et ignis interdictio”), cioè la privazione della cittadinanza, ne costituirà la pena più tipica. In certi casi (come quello di Bruto e Cassio), il Senato votava la “damnatio memoriae”, che cancellava ogni traccia del condannato dalla vita dell’Urbe. Anche nell’antica Grecia il tradimento (“prodosia”) designava l’accordo con il nemico. Nell’Atene del quinto secolo a.C. viene associata dai grandi tragediografi alla trasgressione della parola data e al disprezzo degli dèi.

L’archetipo del traditore nel Medioevo è Giuda. È con il suo nome che vengono marchiati tutti i nemici della fede, i maomettani e i saraceni. La giudefobia cristiana culmina con l’espulsione degli ebrei decretata da Filippo Augusto in Francia (1182) e da Edoardo I in Inghilterra (1290). All’inizio del Trecento, a inchiodare Giuda nel ruolo di traditore per antonomasia ci sono gli affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni di Padova, e quelli di Pietro Lorenzetti nella basilica di San Francesco ad Assisi. E c’è, naturalmente, Dante. Nel XXXIV canto dell’Inferno Giuda viene collocato nella bocca centrale di Lucifero, accanto a Bruto e Cassio. Per il sommo poeta, i tre peggiori traditori della storia avevano frodato i loro benefattori, i loro mentori, i loro amici.

Fino all’undicesimo secolo, il tradimento era essenzialmente un atto di “infidelitas” del vassallo, di rottura del contratto feudale. Dalla metà del Duecento, si configura (eredità del diritto romano) come un atto di lesa maestà contro il re, sanzionato con afflizioni terribili. Inoltre, è da allora che il termine “corona” viene usato per simboleggiare l’unità -anche spirituale- tra il sovrano e i suoi sudditi. Le nuove concezioni del tradimento emerse con la guerra dei Cent’anni (1339-1453), vengono riassunte dal giureconsulto transalpino Jean Boutillier nella sua “Somme rurale” (1390): è tradimento l’assassinio del proprio signore, mentre è lesa maestà qualunque “mancanza di riguardo” per il monarca. In realtà, questa distinzione era già presente in quello Statuto, promulgato nel 1351 dal re d’Inghilterra Edoardo III, che contemplava pene differenti per gli ecclesiastici (l’annegamento), per le donne (il rogo), per gli uomini (lo sventramento e -talvolta- l’evirazione).

Dopo circa un secolo, Enrico VIII è il primo re inglese che riesce a succedere al padre. Ma questa inedita stabilità dinastica non si traduce in una pacificazione del paese. I contrasti con il papato e le peripezie sentimentali del sovrano provocano aspri conflitti religiosi e politici. È in questo clima che si inserisce la protesta di Elizabeth Barton, famosa come la “monaca di Kent”. Di umili origini, ma considerata santa negli ambienti cattolici, aveva profetizzato la morte di Enrico VIII dopo il matrimonio con Anna Bolena. Per questo viene imprigionata e interrogata dalla Camera Stellata, il tribunale regio non sottoposto alla “common law”. Il 21 aprile 1534 viene giustiziata in virtù del “Bill of attainder”, che aboliva il processo per i traditori accusati in modo formalmente corretto. La sua vittima più insigne sarà Thomas More, dimessosi da cancelliere nel 1532 perché non condivideva la politica clericale del re. Nel 1535 viene decapitato per essersi opposto all’investitura parlamentare di Enrico VIII come capo della Chiesa anglicana.

Dalla dinastia Tudor alla dinastia Stuart, la scena non cambia: l’Inghilterra è teatro di complotti memorabili. Il più clamoroso è la cosiddetta “Congiura delle polveri”. Un gruppo di cospiratori cattolici, guidati da Guy Fawkes e Robert Catesby, aveva affittato una cantina situata sotto il parlamento e l’adiacente abbazia di Westminster. L’intento era quello di far saltare in aria la Camera dei Lord il giorno dell’inaugurazione (“State Opening”), e con essa Giacomo I -succeduto a Elisabetta nel 1603- e buona parte della nobiltà. Una soffiata anonima mette sull’avviso la polizia, e una perquisizione nei sotterrranei del parlamento porta alla scoperta, a inizio novembre 1605, di trentasei barili di polvere da sparo. Per festeggiare lo scampato pericolo, a corte viene rappresentato in anteprima il “Macbeth” di Shakespeare.

Il sipario sul Seicento inglese cala idealmente con l’approvazione nel 1689 del “Bill of Rights”, pietra miliare del costituzionalismo liberale. Figlio della “Gloriosa rivoluzione” del 1688, che rovescia Giacomo II e insedia sul trono Guglielmo III d’Orange, limitava l’impiego smodato e discrezionale dell’accusa di tradimento, per ricondurlo nell’alveo di una giustizia sostanziale. È allora che inizia a profilarsi il concetto di presunzione d’innocenza. Più in generale, si delinea una nuova concezione dei diritti individuali, fino al diritto di resistenza contro il sovrano che minacciava di sovvertire la volontà del popolo. Più tardi, una legge del 1696 garantirà un collegio di difesa a ogni imputato, non più obbligato ad autoincriminarsi. Era quanto aveva rivendicato nel 1649 John Lilburne, il leader dei “levellers” in rotta di collisione con Oliver Cromwell, nel corso del processo a cui era stato sottoposto per istigazione all’ammutinamento. Purtroppo per lui, John Locke non aveva ancora scritto i “Due trattati sul governo” (1690).

Il 22 ottobre 1774 Caterina II di Russia spedisce una lettera a Voltaire, in cui l’uomo su cui il filosofo aveva chiesto informazioni viene così descritto: “Non sa leggere né scrivere, ma è estremamente ardito e determinato […]. Egli immagina che possa accordargli la grazia in considerazione del suo coraggio […]. Se avesse offeso solo me il suo ragionamento avrebbe potuto funzionare e lo avrei perdonato. Ma qui la causa in gioco è quella dell’Impero, che ha le sue leggi”. L’uomo su cui tutta l’Europa si stava interrogando era Ivanovič Pugačëv. Aveva iniziato la sua ribellione nel 1772, sostenendo di essere lo zar Pietro III, marito di Caterina, misteriosamente scomparso nel 1762 in seguito a una congiura di palazzo ordita dalla stessa zarina e dal suo amante Grigorij Orlov. Nel giro di pochi mesi Pugačëv, dotato di straordinarie capacità militari, aveva trasformato la protesta dei cosacchi contro San Pietroburgo in una sollevazione di massa per “la libertà, lo sterminio della razza nobiliare, l’esenzione delle imposte e la distribuzione gratuita del sale”.

Le sue truppe erano formate -annota Aleksandr Puškin- da “un’inverosimile quantità di tartari, baškiri, calmucchi, contadini, forzati e vagabondi d’ogni sorta”. Nell’estate del 1774 deve però cedere alle forze soverchianti messe in campo dal generale Michel’son a Caricyn. Con le catene ai piedi e rinchiuso in una gabbia, il sedicente Pietro III viene condotto a Mosca. Lì viene giudicato da un tribunale speciale, presieduto dal procuratore Aleksandr Vjazemskij. Pugačëv dichiara di pentirsi davanti a Dio, all’imperatrice e a tutto il “genere cristiano”. La sentenza, approvata da Caterina, viene pronunciata il 9 gennaio 1775. Viene condannato allo squartamento.

Quello di Pugačëv è senza dubbio uno dei più eclatanti processi per tradimento celebrati nell’ultimo trentennio del Settecento. È questo il periodo in cui l’Illuminismo mette in discussione il sistema di Antico Regime, in cui comincia a farsi strada l’idea di nazione, in cui capitalismo e ceti borghesi muovono i loro primi ma spediti passi. Si creano nuovi legami e nuove identità; e, quindi, nuovi tradimenti o tradimenti di tipo nuovo. Non fortuitamente sono gli Stati Uniti i primi a sperimentarli e i più lesti a definirli, in un percorso del tutto peculiare. Esso si costruisce sulla base della rivolta dei coloni contro la madrepatria, si precisa nel corso della rivoluzione per l’indipendenza, si legittima con la Costituzione del 1787 (in vigore due anni dopo). Nella sua versione finale, due commi recitavano: “1.Sarà considerato tradimento contro gli Stati Uniti soltanto l’aver mosso guerra contro di essi, o l’aver appoggiato [i suoi] nemici fornendo loro aiuto o sostegno […].2.Spetterà al Congresso stabilire la pena per tradimento; ma nessuna sentenza potrà comportare perdita di diritti ereditari per i discendenti […]”.

Come è evidente, si tratta di clausole fortemente restrittive, soprattutto se confrontate con le legislazioni del Vecchio continente. I costituenti della Convenzione di Filadelfia conoscevano bene il nome di Benedict Arnold. Eroe della “campagna di Saratoga” (1777) contro l’armata anglo-tedesca di John Burgoyne, l’allora comandante della guarnigione di West Point nel 1780 aveva venduto agli inglesi per denaro le mappe della fortezza. Scoperto dagli agenti dell’intelligence di George Washington, si unisce alle truppe britanniche di sir Henry Clinton. Messosi al suo servizio, favorisce la presa di Richmond e per poco non cattura il governatore della Virginia, Thomas Jefferson. Nel 1781 si trasferisce a Londra, dove diventa un agiato commerciante. Dopo la sua morte (1801), non ci sarà testo scolastico sulla guerra contro re Giorgio III senza una pagina in cui il “dissoluto e rinnegato Arnold” non venga maledetto.

Proprio dopo la vittoria di Benedict a Saratoga la Francia di Luigi XVI si schiera a fianco delle colonie ribelli. Quindici anni dopo, nell’ottobre 1792, dalla tribuna della Convenzione Robespierre tuonava: “Non c’è alcun processo da fare, qui […]. Luigi deve morire perché la patria viva […]. Richiedo che la Convenzione nazionale lo dichiari traditore della nazione francese, criminale nei confronti dell’umanità”. Il 21 gennaio 1793 il sovrano viene ghigliottinato in piazza della Rivoluzione (oggi Place de la Concorde) di fronte ai sanculotti esultanti. Il 16 ottobre è la testa della “vedova Capeto” a cadere nella stessa piazza. Era stato Jacques-René Hébert a pretenderla con più caparbietà, in decine di articoli apparsi sull’influente “Le Père-Duchesne”. Più che sulle presunte macchinazioni con la monarchia austriaca, è sulla conclamata lussuria di Maria Antonietta che il giornale di Hébert accende i fari, con un linguaggio spesso postribolare.

Eccitando lo sdegno delle plebi parigine, il caporione della fazione degli “arrabbiati” si scaglia contro “l’Autrichienne che va a letto con l’intera corte, che si dà piacere a turno con La Fayette, la principessa di Lamballe e il suo valletto di camera”. Nelle sue “Réflexions sur le procès de la reine”, stese nell’agosto 1793, Madame de Staël aveva chiaramente intuito la deriva misogina che avrebbe caratterizzato il regime del Terrore. Appena due settimane dopo l’esecuzione di Maria Antonietta, i club politici femminili vengono chiusi con un provvedimento del Comitato di salute pubblica, in quanto “La loro [delle donne] presenza nelle ‘sociétés populaires’ concederebbe una parte attiva nel governo a persone esposte all’errore e alla seduzione più di quanto lo siano gli uomini”.

William Pitt (il Giovane), primo ministro del Regno Unito, si considerava un “whig autonomo” e non aveva nascosto le sue iniziali simpatie per la rivoluzione francese. Ma nel 1793 mette sotto torchio i gruppi riformatori britannici, temendone i collegamenti con l’ala radicale dei giacobini. L’azione repressiva è brutale, e si concretizza nella sospensione dell’habeas corpus e in un massiccio rafforzamento degli apparati di spionaggio. Il 12 maggio 1794 la polizia irrompe nella bottega di Thomas Hardy a Piccadilly Street, e lo arresta con l’accusa di “progettare la morte del re”. Hardy era un calzolaio, esponente di spicco della “London Corresponding Society”, un’associazione di artigiani e commercianti vessati dal crescente aumento delle tasse e dei prezzi. Un punto centrale del suo programma era la convocazione di una “British Convention”, in cui discutere i problemi politici e sociali posti dalla nascente rivoluzione industriale. Pitt, sospettando un disegno insurrezionale (deporre il re e proclamare la repubblica), pensa di mettere fuori gioco la sua mente affidando l’accusa contro Hardy e i suoi coimputati all’Attorney General John Scott, considerato un accusatore infallibile.

Nella sua abile arringa difensiva, l’avvocato Thomas Erskine smonta l’impianto tutto indiziario su cui poggiava il processo, confutandone la stessa legittimità. Il 5 novembre 1794, mentre davanti all’Old Bailey si raduna una folla immensa, la giuria entra in aula per il verdetto. Il cancelliere pronuncia la formula di rito: “Signori della giuria, ritenete l’imputato colpevole o non colpevole del reato di alto tradimento?”. “Non colpevole”, risponde il primo giurato. La sentenza assestava un duro colpo al tentativo di mettere il bavaglio alle associazioni dei lavoratori. Solo sei anni più tardi Pitt riuscirà a dichiararle illegali con i “Combination Acts”.

Una delle definizioni più brillanti e argute del tradimento è quella di Charles-Maurice de Talleyrand: “La trahison n’est qu’une question de temps”. “Quando non cospira, Talleyrand intrallazza”, diceva François-René de Chateaubriand. In effetti, il camaleontico principe di Benevento era passato indenne – e sempre in posizioni di prestigio – dall’Antico Regime alla Rivoluzione, dal Direttorio al Consolato, da Napoleone alla Restaurazione di Luigi XVIII, e poi alla monarchia di Luglio. Allo “stregone della diplomazia” veniva attribuito anche il “tradimento di Erfurt”. In un incontro che si svolge nella città della Turingia (settembre-ottobre 1808), concordato per consolidare la pace di Tilsit dell’anno precedente, Napoleone sollecita l’aiuto di Alessandro I per arginare l’offensiva austro-prussiana contro le sue truppe. Volendo dar credito alle sue memorie,in un colloquio segreto Talleyrand sconsiglia lo zar di accettare: “Sire, che siete venuto a fare qui? Tocca a voi salvare l’Europa, e non ci riuscirete che tenendo testa a Napoleone. Il popolo francese è civilizzato e il suo sovrano non lo è; il sovrano di Russia è civilizzato e il suo popolo non lo è; il sovrano di Russia deve quindi allearsi con il popolo francese”.

Dopo il Congresso di Vienna (1815), in Europa è considerato traditore chiunque si proponga di rovesciare il governo o di instaurare la repubblica. Le rivolte dei carbonari italiani, dei decabristi russi, dei cartisti inglesi, sono parte di un moto più generale che sfocia nella “primavera dei popoli” del 1848, in cui si intrecciano pulsioni patriottiche e liberali, progetti istituzionali e di giustizia sociale, a cui non erano estranee le stesse logge massoniche di recente costituzione.Come sottolinea Flores, pur nella palese e profonda diversità tra un regime liberale (quello britannico o statunitense), un regime autoritario (quello francese), un regime autocratico (quello russo, austriaco, prussiano), il reato di tradimento si presenta sempre più come l’arma di una lotta per il potere combattuta senza esclusione di colpi. Mentre sopravvivono ancora lealtà di tipo dinastico, si affacciano nuove fedeltà. E non raramente la fedeltà alla propria classe sociale è più sentita di quella alla propria nazione.

Nel 1850 Nathaniel Hawthorne pubblica “La lettera scarlatta”, il romanzo che lo consacra tra i grandi interpreti dell’anima americana. L’autore sapeva che la sua opera era “infernale”, perché affrontava il tema assai spinoso dell’adulterio. Nonostante il suo riserbo puritano e il suo stile misurato e rigoroso, il romanzo era stato subito bollato da qualche critico scandalizzato come l’alba di “un’era francese” nella letteratura d’oltreoceano. Nessuno poteva prevedere che nel 1857 sarebbe stato proprio il procuratore della Senna Ernest Pinard a censurare “Madame Bovary” di Gustave Flaubert, “Les Fleurs du mal” di Charles Baudelaire e “Les Mystères du peuple” di Eugène Sue. Secondo il futuro ministro dell’Interno, tutti e tre rei di vilipendio alla morale pubblica, alla religione e ai “buoni costumi” (per Sue, anche di incitamento all’odio di classe). Flaubert viene assolto, a Baudelaire comminata una multa, a Sue inflitto un anno di prigione.

Riflettendo sulla storia dell’adulterio, in una lettera a Paul Alexis Flaubert scriverà: “I classici avevano le corna (“cocuage”), che è una cosa allegra. I romantici hanno inventato l’adulterio, che è una cosa seria. Sarebbe tempo che i naturalisti guardino questa azione con indifferenza […]. L’invenzione consiste nel cambiare registro, nel passare dal comico al tragico, drammatizzando la passione vissuta come infrazione della legge sociale, resa più dura in Francia dal codice civile del 1804″.

Émile Zola, che con il metodo naturalistico invocato da Flaubert aveva trattato il tema dell’adulterio in “Thérèse Raquin” (1867), conquista una fama internazionale grazie al caso di tradimento che scuote la Francia sul finire dell’Ottocento. Il suo “J’Accuse”, pubblicato su “L’Aurore” il 13 gennaio 1898, sposta i rapporti di forza tra i sostenitori dell’innocenza di Alfred Dreyfus, il capitano d’artiglieria ebreo accusato tre anni prima di intelligenza con la Germania, e quanti (la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica) sono certi della sua colpevolezza. Nei mesi in cui Dreyfus viene arrestato e processato, “La France juive” di Édouard Drumont (1886) aveva superato le cento ristampe. In un’epoca in cui lo scientismo positivista si mescolava allo spiritismo e al satanismo, Drumont lo utilizza in chiave antigiudaica per spiegare come il tradimento sia connaturato all’ebreo.

Per il fondatore della “Libre Parole”, l’ebreo non appartiene al nemico, non appartiene a nessuno: è “errante” e si dissimula nelle pieghe della società. Poiché il tradimento presuppone la rottura di una relazione di fiducia, per Drumont i traditori più veri non sono gli ebrei, i quali sono piuttosto spie che infettano con la loro presenza il corpo sociale, ma i loro amici e sostenitori, i “judaïsant”. Il consenso riscosso da queste tesi conferma la verità scomoda denunciata da Mathieu Dreyfus, ovvero che l’incriminazione di suo fratello era ascrivibile al virulento antisemitismo che allignava tra i suoi concittadini. Ma sarà solo nel 1898 che il mondo della cultura, anche su spinta di politici come Jean Jaurès, si decide a contrastare la marea patriottarda che stava sommergendo la Francia. Insieme a Zola, allo storico Gabriel Monod e al sociologo Émile Durkheim, i primi a scendere in campo saranno gli scienziati, a partire dal direttore dell’Istituto Pasteur Émile Duclaux.

Quando l’affaire Dreyfus volge al suo epilogo (il capitano verrà reintegrato nell’esercito il 12 luglio 1906, ricevendo la croce di cavaliere della Legione d’onore), il conflitto mondiale era alle porte. Nel quarto di secolo che lo prepara, si consuma una piena metamorfosi dell’idea di tradimento. La fedeltà al sovrano viene definitivamente soppiantata dalla fedeltà alla nazione. Lo stesso sovrano è ormai costretto a identificarsi con la propria nazione e non più con la propria dinastia. “Da allora i traditori – sostiene Raymond Aron- assumono la figura classica con cui li raffigura l’immaginazione popolare. L’ufficiale di marina, che trasmette dei segreti ai servizi di spionaggio di una potenza straniera, non può agire che per motivi disprezzabili. Il traditore oggettivo è, al tempo stesso, un traditore soggettivo: non sembra più concepibile una situazione in cui un uomo possa mettersi contro la propria patria per motivi nobili”. Dopo la Grande guerra, non sarà sempre così. Con il Novecento inizia infatti un’altra storia del tradimento. Marcello Flores la racconta in un altro volume (“Il secolo dei tradimenti. Da Mata Hari a Snodwen, 1914-2014”, il Mulino, 2017) su cui mi riprometto di tornare.

Back To Top