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University of California San Diego. Il campus autosufficiente grazie alle smart grid

Un Campus universitario autosufficiente dal punto di vista energetico e completamente “green”. Potrebbe sembrare fantascienza, si tratta invece della University of California di San Diego (UCSD), che torna a fare scuola in materia di risparmio energetico e salvaguardia dell’ambiente.

 

L’Ateneo nato nel 1960, epoca in cui la “consapevolezza energetica” cominciava a radicarsi e concepito come tempio della ricerca scientifica e tecnologica, sfrutta oggi energie pulite e infrastrutture digitali innovative che consentono di prevedere in maniera intelligente e sostenibile quanta energia verrà consumata e quindi auto – prodotta.

Oggi il Campus produce il 92% dell’energia che consuma. Un cifra importante considerando anche le dimensioni della struttura, circa 485 ettari di superficie con 725 edifici e 120 ettari di spazi all’aria aperta, e l’afflusso, 45 mila persone ogni anno, tra studenti, professori e personale impiegato. La utility locale, la San Diego Gas & Electric, fornisce solo l’8% della domanda annuale di energia.

La microgrid della UCSD presenta: Una centrale a cogenerazione di 30 MW, che fa risparmiare 8 milioni di dollari in connessioni alla rete ogni anno; Una cella a combustibile alimentata a gas naturale di 2,8 MW, che fornisce elettricità al campus e provvede a riscaldare l’impianto di cogenerazione, aumentando l’efficienza complessiva della centrale elettrica e generando risparmi sui costi aggiuntivi; 1,2 MW di energia solare, tra pannelli fotovoltaici e pannelli a concentrazione; 25 palazzi che sfruttano sistemi intelligenti come gli “smart meter”, contatori che permettono di essere gestiti da remoto e di misurare in maniera completa i consumi di ogni edificio.

Il mix di fonti che compone la “micro – rete” elettrica, sfrutta un software creato dalla OSIsoft, il PI System, che aiuta nelle operazioni di monitoraggio e ottimizzazione delle varie componenti.

Entrando nel dettaglio, la cella a combustibile copre da sola l’8% del fabbisogno di energia della UCSD ed è una delle tre unità della regione sfruttare biogas dalle acque reflue della società Point Loma Wastewater Treatment Plant. Presto verrà aggiunto un sistema di storage che permetterà di ridurre ulteriormente i costi di connessione. Sul fronte rinnovabili il solare costituisce la maggior parte della produzione di energia alternativa della UCSD, con 1,2 MW di installato e un sistema di accumulo integrato da 30kW che consente di stoccare energia elettrica e utilizzarla quando i prezzi di acquisto dell’energia sono più alti, o in caso di surplus di produzione, immettere quote in rete e sfruttarlo come fonte di reddito.

Il sistema a generazione distribuita del campus di San Diego è stato sviluppato negli anni e oggi con il PI System della OPIsoft è possibile, attraverso il controllo e la gestione dei dati raccolti dal sistema e sulla base di valutazioni sulla domanda e offerta di energia, pianificare la produzione in maniera intelligente e sostenibile. Una delle particolarità di questo sistema è la capacità di gestire un volume così grande di dati. Altri sistemi infatti tendono a cancellare i dati pregressi per fare spazio ai nuovi, perdendo così preziose informazioni e nascondendo tasselli importanti della catena su cui si dovrebbe intervenire. Inoltre, il PI System è, per citare Byron Washom Energy Manager del Campus, la “Stele di Rosetta” della microgrid della UCSD, in quanto riesce a mettere in comunicazione tra loro diverse infrastrutture, installate in periodi diversi, che usano linguaggi diversi.

L’Università di San Diego ha deciso di condividere tutti i dati raccolti dal sistema, pubblicandoli sul web e rendendoli visibili per qualsiasi utente online. Una tale trasparenza consentirà di avere notevoli vantaggi, come ad esempio la possibilità che l’esperienza dell’Università di San Diego venga notata da altri atenei replicata e migliorata. Al pari degli istituti di ricerca pubblici, la UCSD spera che la sua iniziativa ispiri nuovi traguardi nel campo della ricerca e venga esportata in tutto il mondo. È quello che Washom definisce con entusiasmo “laboratorio vivente”, ovvero mettere a fattor comune il know how per far sì che tutti possano fruirne, apportando magari innovativi miglioramenti. Un approccio tipicamente made in usa che, stando ai fatti, paga.

 

 

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