Gli inglesi in casi simili parlerebbero di una “storm in a teacup”, in italiano potremmo invece usare l’espressione “tanto rumore per nulla”. Perché non si placano le polemiche sul nome della piattaforma Modena di Xiaomi, che tanto ha fatto infuriare il sindaco Gian Carlo Muzzarelli, che nell’inaugurare la sesta Motor Valley Fest si è scagliato contro il marchio hi-tech che arriva da Oriente: “Il gruppo cinese non ci ha minimamente informati o chiesto il permesso – ha spiegato Muzzarelli – Utilizzare il brand Modena per sviluppare e promuovere un prodotto cinese, quindi non del nostro territorio e non prodotto qui, nella Motor Valley, credo sia un errore e un’offesa”.
DAVVERO XIAOMI HA UN MODELLO CHE SI CHIAMA MODENA?
Eppure, sebbene la scelta di utilizzare un nome non solo tipicamente italiano, ma addirittura radicato nella tradizione motoristica del nostro Paese (Modena fa parte della Motor Valley italiana, è sede della Maserati ed esiste già la Ferrari 360 Modena) avesse stupito in prima battuta Start Magazine quando, oltre un anno fa, aveva ospitato un approfondimento sul progetto di Xiaomi, fin dall’agosto del 2023 queste stesse pagine avevano avuto cura di sottolineare che Modena non fosse il nome di un modello, bensì quello interno del progetto della piattaforma sviluppata dai cinesi.
LA REPLICA DI XIAOMI A MODENA
Insomma, non ci sarà mai alcuna Xiaomi Modena a listino. Ed è proprio ciò che da Xiaomi hanno risposto: “In relazione alle recenti notizie circolate nel fine settimana e alle dichiarazioni rilasciate da rappresentanti del governo nazionale e locale – hanno fatto sapere a Start dal gruppo -, Xiaomi desidera chiarire che il nome del suo veicolo elettrico è Xiaomi SU7. ‘Modena’ rappresenta solo il nome interno di un progetto, nonché l’identificativo dell’architettura della piattaforma ‘Xiaomi EV Modena Architecture’ come annunciato durante un evento tenutosi a Pechino il 28 dicembre 2023″.
L’azienda sottolinea quindi che “non ha intenzione di utilizzarlo per campagne di marketing a livello globale indicandolo come nome dell’auto. Xiaomi si è sempre impegnata a rispettare tutte le normative europee e italiane applicabili, compreso il regolamento sulla protezione delle indicazioni geografiche”.
E non si tratta, come si potrebbe pensare, di una retromarcia improvvisa e un po’ maldestra perché il nome Modena appunto non compare effettivamente da nessuna parte e il modello, di cui avevamo già scritto pure qui, si chiama SU7. Poi, certo, con un po’ di malizia si potrebbe sottolineare che per essere un nome interno era stato sbandierato un po’ troppo all’esterno. O non saremmo qua a parlarne.
URSO E MUZZARELLI TIRANO DRITTO
Festeggiano dalle parti del dicastero del Made in Italy, che leggono la comunicazione che Xiaomi ha fatto pervenire alla stampa come una assunzione di responsabilità con tanto di mea culpa: “La Casa automobilistica cinese Xiaomi”, si legge nell’informativa diramata da via Veneto, “ha comunicato al Mimit che non promuoverà l’autovettura SU7, prodotta al 100% in Cina, con la denominazione “Modena”, così come sino a oggi evidenziato sui media dopo l’evento di presentazione del 28 dicembre scorso a Pechino”.
“L’azienda – si legge sempre sulla nota del ministero – ha assicurato che intende rispettare le norme italiane sulle indicazioni fallaci, compreso il regolamento sulle indicazioni geografiche. Non saranno promosse campagne di comunicazione e di marketing che possano indurre i consumatori in errore”.
ITALIANI E CINESI NON SI CAPISCONO?
Insomma, da un lato Xiaomi precisa che non era mai stato nelle intenzioni del gruppo sfruttare il nome di un progetto a fini di marketing, dall’altra il dicastero sventola la precisazione come una rinuncia formale del nome e un rientro in carreggiata. Prova provata che quando Italia e Cina si parlano non sempre si capiscono.
L’ALLEANZA SULL’ITALIAN SOUNDING CHE UNISCE CSX E CDX
Quel che è certo è che la Xiaomi SU7 o Modena aveva contribuito alla nascita di una curiosa alleanza tra centrosinistra (ovvero il sindaco di Modena) e il centrodestra a matrice sovranista rappresentato dal ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso (ancora evidentemente piccato dalla querelle con Stellantis sull’Alfa Romeo Milano). Alleanza che nelle ultime ore pareva promettere battaglia al mondo intero.
I due si erano infatti sentiti al telefono: Gian Carlo Muzzarelli aveva ricevuto non solo il massimo sostegno del Mimit anche nel caso in cui, come già lasciato intendere dal primo cittadino, avesse deciso di intraprendere iniziative legale (il dicastero avrebbe assicurato il primo cittadino che hanno dalla loro l’art. 4, co. 49bis, della Legge 350 del 2003 a contrasto delle indicazioni fallaci, ovvero dell’uso di simboli o denominazioni italiane in prodotti realizzati in altri Paesi), ma aveva anche potuto sapere in anteprima i piani del ministero del Made in Italy per garantire maggior tutela alle località che si fregiano di precise indicazioni geografiche per i loro prodotti artigianali e industriali.
IL NUOVO SCUDO A TUTELA DEL MADE IN ITALY
Dopo le polemiche sull’Alfa Romeo Milano e sulla presunta Xiaomi Modena i tecnici del Ministero delle Imprese e del Made in Italy hanno accelerato la prima ricognizione su oltre duecento luoghi in Italia noti in tutto il mondo per le loro produzioni, che possono rivendicare il riconoscimento di “indicazione geografica” previsto nel nuovo regolamento a tutela dei consumatori e dei produttori UE. L’obiettivo, insomma, è individuare in prima battuta paesi e città collegati, nell’immaginario collettivo, a prodotti artigianali e industriali, blindandoli legalmente.
Una vera e propria novità dato che solo fino a pochi anni fa l’Italia aveva sempre lasciato correre (in strada) auto straniere con nomi italianissimi. Si pensi alla Nissan Murano, o alla Kia Sorento (sì, con una sola ‘r’…) e alla Kgm Tivoli, giusto per citare i casi più recenti. Ma con l’invasione di auto elettriche cinesi ormai alle porte, i possibili dazi della Ue alle vetture che arrivano da Pechino ma soprattutto la drammatica situazione in cui versa l’automotive italiano, è chiaro che dalle parti del governo sul punto abbiano il nervo scoperto. Chi vuole usare nomi italiani dovrà produrre in Italia, insomma. Basterà questo a convincere qualche produttore estero a impiantare nel Paese la propria gigafactory?