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Britishvolt Italvolt

La startup Britishvolt a fine corsa. Che ne sarà della gigafactory di Italvolt?

La gigafactory da 3,8 miliardi di euro e 3 mila lavoratori da costruire nel Nord dell’Inghilterra, a Blyth, in collaborazione con Pininfarina, Siemens, Aston Martin e Lotus, non ha trovato capitali ed è finita in amministrazione controllata. E ora monta la preoccupazione che dopo Britishvolt possa toccare alla gemella piemontese Italvolt

Britishvolt, la startup gemella di quell’Italvolt che dovrebbe aprire una gigafactory a Scarmagno, in Piemonte, nell’ex sito industriale Olivetti di Ivrea, è già arrivata al capolinea. O quasi. La realtà fondata da Lars Carlstrom, l’imprenditore svedese che voleva diventare il re europeo delle batterie elettriche, ha presentato istanza di amministrazione controllata mettendo alla porta 300 dipendenti.

UN PROGETTO TROPPO AMBIZIOSO?

Il corposo progetto da 3,8 miliardi di euro e 3 mila lavoratori che prevedeva la costruzione di un polo di batterie nel Nord dell’Inghilterra, a Blyth, in collaborazione con Pininfarina, Siemens, Aston Martin e Lotus, si è scontrato a tutta velocità con l’impossibilità di trovare capitali e investitori.

A nulla sono serviti i round da circa 200 milioni di sterline, di cui la metà di provenienza pubblica messa sul piatto dal governo inglese (che, al pari di molti altri, sovvenziona uno degli asset strategici della transizione ecologica ed energetica in atto con ingenti quantità di denaro).

Che le cose non andassero troppo lisce dalle parti di Britishvolt si era intuito fin dal dicembre 2020 quando Lars Carlstrom era stato costretto a rassegnare le dimissioni inseguito dalle polemiche per una condanna per evasione fiscale che negli anni novanta gli era costata 10 mila euro di multa e 60 ore di servizi sociali in Svezia.

Anche se il debito con la giustizia e col fisco era stato pagato, difficile presentarsi ai diffidenti investitori britannici con un casellario giudiziale macchiato in tal modo. Tuttavia, anche senza Carlstrom alla guida, quei capitali per costruire la gigafactory britannica non sono mai arrivati.

L’UOMO CHE VOLEVA RISOLLEVARE SAAB

Lars-Eyvind Carlstrom, classe 1965, nato a Lulea, seconda città della Svezia per abitanti (poco più di 50mila), alle porte della Lapponia, un tempo nota soprattutto per le sue attività minerarie, mentre oggi, nell’epoca della dematerializzazione dei beni, per ospitare il primo data center di Facebook costruito al di fuori degli Stati Uniti, ha sempre avuto il pallino dell’automotive.

Per anni ha provato senza successo ad acquisire Saab, l’ormai dismesso marchio di Trollhättan che gli amanti del genere ricordano per avere messo sul mercato le auto più sicure al mondo (vi lavoravano i medesimi ingegneri dei jet), che poi si sono tradotte nelle auto più costose al mondo da fabbricare, con forte dispendio per la fabbrica, infatti, che dopo varie altalene finanziarie, nel 2016 ha chiuso definitivamente gli hangar, pardon, le autofficine.

DOPO BRITISHVOLT TREMA ITALVOLT?

E ora appunto c’è paura che il contagio si espanda anche a Italvolt, la gemellina mediterranea di Britishvolt. Anche la gigafactory piemontese è impantanata, avendo subito qualche rallentamento di troppo che la stessa realtà ha attribuito all’improvviso avvicendamento a Palazzo Chigi della scorsa estate.

E al momento dà segni di vita siglando accordi. L’ultima intesa prevede, in particolare, che la startup israeliana StoreDot conceda in licenza a Italvolt la propria tecnologia di ricarica ultrarapida e ad alta densità energetica e i diritti di proprietà intellettuale per la produzione di batterie agli ioni di litio XFC proprio nella costruenda gigafactory di Scarmagno. Inoltre, hanno reso noto le parti, nel patto fresco di firma è compreso un contratto per la fornitura alla stessa StoreDot, a prezzi predefiniti e per un determinato periodo di anni, di accumulatori che saranno prodotti in Italia.

In piena estate Italvolt aveva invece siglato una partnership con il Politecnico di Milano “per realizzare un’economia circolare a ciclo chiuso per lo sviluppo di batterie per la mobilità elettrica”. Nell’ambito della partnership, il laboratorio interdipartimentale di recente costituzione del Politecnico, CIRC-eV, Circular Factory for the Electrified Vehicles of the Future, identificherà le fonti di approvvigionamento primario di materie prime e analizzerà le possibilità di recupero di materiali chiave da fonti secondarie riciclate, come le batterie esauste.

All’interno della partnership, il Politecnico di Milano mapperà le catene di approvvigionamento per aiutare Italvolt a reperire materie prime da fonti primarie per la realizzazione della gigafactory di Scarmagno, con una capacità produttiva a regime di 45 GWh. L’Università valuterà la qualità dei materiali provenienti dai fornitori primari per garantire la realizzazione di batterie agli ioni di litio di massima qualità e sostenibilità. Oltre alle fonti di approvvigionamento primario, il Politecnico analizzerà i flussi relativi agli scarti di produzione per alimentare la fornitura anche tramite fonti secondarie. L’Università valuterà l’intera catena di produzione per permettere a Italvolt il recupero di materiale chiave presente nelle batterie esauste.

IL PRECEDENTE CHE FA PAURA

Ma adesso, con Britishvolt in amministrazione controllata, si teme il fuggi fuggi degli azionisti pure da Italvolt. Del resto quando si parla di gigafactory estere in Italia c’è un precedente che nessuno vuole nominare e tutti temono: il progetto di Silk-Faw, joint venture sino-americana che intendeva trasferirsi in Emilia per produrre hypercar totalmente elettriche.

Un progetto da 1 miliardo di euro che avrebbe dovuto creare tra i 1500 e i 3000 posti di lavoro, accolto a braccia aperte dalla politica, a tutti i livelli, almeno fino a quando non sono aumentati i dubbi sulle reali intenzioni di realizzarlo da parte della jv, che ha iniziato a fare melina.

Nelle ultime settimane ha iniziato a muoversi anche la giustizia italiana: il tribunale di Reggio ha emesso i primi decreti ingiuntivi per obbligare Silk Faw a pagare gli stipendi arretrati a 15 dipendenti, in gran parte si sono tutti licenziati, che a fine agosto avevano richiesto la messa in mora della società lamentando mancati pagamenti da giugno per un ammontare di circa 200mila euro.

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